Tratto dal libro di Marino Giannuzzo “I Ragona”. 

Rubriche/PensieriParole/ di Marino Giannuzzo

Ringraziamo l’autore per aver consentito alla pubblicazione del suo romanzo che troverete su queste pagine ogni domenica con un nuovo episodio.

Link capitolo precedente: Gisella.  http://www.ilsedile.it/letture-sotto-lombrellone-gisella/#more-28162

Da quella sera in poi i giorni erano trascorsi, tra alti e bassi, in modo serenamente appassionati e felici per i due. Anche Tony, come tutta la famiglia dei Ragona, non aveva avuto vita facile.

Era giunto ai suoi venticinque anni ingoiando bocconi amari. Tuttavia una sera del mese di ottobre, una di quelle sere non ancora fredde ma non più calde, quando ormai si frequentavano con Gisella da quasi quattro mesi, era contento, ed anche felice, sensazione che provava sempre alla presenza di lei. -Ti amo! – furono le uniche parole mentre la stringeva a sé chiudendole la bocca con un bacio. – Anch’io! – fece in tempo a rispondere Gisella. Poi si calmarono. Rimasero pensierosi, in silenzio, entrambi. Ad un tratto, quasi all’improvviso, la ragazza disse: -parlami di te, della tua vita-. -Vita scialba. Nulla di importante, come quella di tanti altri-. -Tu raccontami qualcosa di te, anche se insignificante…-. -Ok. Ti racconterò un aneddoto che pare una barzelletta-. -Non voglio raccontata una barzelletta-.

Pare una barzelletta, ma è un fatto realmente accaduto-. -Sentiamo…-. Si incamminarono per i viali del giardino pubblico e Tony, un po’ ridendo, un po’ schermendosi, cominciò a raccontare. -Era trascorso solo qualche anno dal rientro di molti italiani dalla Svizzera e dalla Germania e coloro che dovevano rientrare in Italia erano rientrati, mentre altri non sarebbero ritornati: imboscati o dispersi o migrati altrove. Allora avevo quasi quindici anni. Da circa due mio padre ci aveva spediti in Italia, me, mia madre e i miei fratelli, in previsione del suo rientro successivamente. Egli sarebbe rientrato nel momento in cui si sarebbe sentito costretto. Ma da quando il governo tedesco aveva fatto in modo che tutti gli stranieri abbandonassero il territorio tedesco, malgrado le ricerche diplomatiche e le informazioni assunte presso amici e conoscenti, di mio padre non si seppe più nulla. Chi lo aveva detto imbarcato su una nave per l’Australia, chi scomparso senza lasciare traccia di sé, chi fuggito senza una meta con una ragazza di molti anni più giovane di lui…. Di fatto se ne erano perse le tracce.

Alcuni lo ritennero morto. Anche il pane scarseggiava in casa della famiglia Ragona, la nostra. Tutti avevano l’impressione, ed era in parte la realtà, che noi, nuovi arrivati, togliessimo agli altri qualcosa del poco che si aveva. Molti esodati si erano assuefatti alla noia, altri avevano preso la via del Brasile o del Canada, altri rimpiangevano il passato, che tanto speravano ritornasse, perché qualcosa da masticare a loro non era mai mancata, una casa, un pezzo di terreno, anche se non di proprietà. Qui, a Lecce, le ragazze non avevano il coraggio di promettersi in moglie, né alcuno faceva proposte, perché nessuno degli uomini, o quasi, aveva quel minimo occorrente per formarsi una famiglia. I più coraggiosi, per sfuggire agli oneri di una cerimonia in pompa magna e di festeggiamenti faraonici, preferivano, per tacito accordo tra le famiglie, prendere la fidanzata ed appartarsi, anche in luogo non lontano, ignoto a tutti, o quasi, per qualche giorno. Il passo era fatto ed una formula recitata dal sacerdote in sacrestia suggellava il matrimonio. Talvolta, dopo la misera cerimonia, gli sposi si recavano, come gli altri giorni, presso il proprio orticello per accudire ai servizi necessari. -Cosa succedeva agli altri non mi interessa. Di te voglio sapere- intervenne Gisella. -Piano, che ci arriviamo. Non avevo ancora quindici anni, ma in giro si diceva che ero sveglio. Per procurare del pane a me, a Nico, a Titti e a mia madre non mi creavo molti scrupoli.

Francesco, mio fratello maggiore, già provvedeva per sé, ed anche per il resto della famiglia, per quanto poteva. Io girovagando per la città avevo stretto amicizia con un ragazzo di circa ventitré anni, americano, così diceva lui, timido, uno di quei tanti poveri disgraziati, trovatosi qui non si sa perché, bisognoso di compagnia e di affetto, il quale una sera mi fece capire che sarebbe stato molto generoso con me se gli avessi procurato una compagnia femminile. Non aveva molto denaro disponibile, ma mi ricompensò con generi alimentari, di cui poteva disporre. Una stretta di mano aveva suggellato il nostro accordo. -Tu mi lasci qualche dubbio sulla tua correttezza- interruppe ridendo Gisella. -Va bene, come vuoi tu…ma fammi continuare…- -Vai avanti…-. -Procuratomi un sacco abbastanza capiente riuscii a portarmi dietro da una casetta dove ci recammo una gran quantità di alimenti. L’americano mi era alle costole: non intendeva farsi fregare. Ad un crocevia gli feci cenno di attendere per strada. Si fermò, incerto se darmi fiducia. Io infilai una porticina che dava in una stalla, con altra uscita sulla viuzza parallela a quella dove attendeva lui.

Correndo percorsi la stalla, inciampando nello sterco di un asino, uscii sulla strada, giunsi trafelato fino ad una casa dal tetto crollato e abbandonata, lasciai il sacco ben nascosto e tornai con l’affanno dall’americano. -Certo che dovevi fare proprio schifo con la puzza addosso…- lo interruppe nuovamente Gisella. -Può capitare….. Pur di procurarmi dei viveri io avevo promesso ed assicurato, ma in realtà non avevo modo di poter mantenere alcuna promessa. D’altra parte non volevo ingannare quel poveraccio che non so come si era procurato ciò che mi aveva ceduto e che io m’avevo portato dietro e nascosto. Avevo sentito dire dagli amici che Cettina, la zitella che abitava nelle vicinanze, qualche volta lasciava entrare qualcuno in casa sua. Io la conoscevo di vista ma non le avevo mai parlato, né mi conosceva. Feci cenno a Duck l’americano, così mi aveva fatto capire di chiamarsi, di seguirmi. Dopo pochi minuti di zig-zag per stradine strette e corte gli feci cenno di fermarsi. Io proseguii per altri dieci metri. Bussai ad una porta e quando Cettina la aprì le chiesi se conosceva un tale di nome Nino Pattini, che doveva abitare nelle vicinanze. Ci pensò un po’, poi stirando le labbra, corrugando la fronte e scuotendo il capo, come se avesse scavato nel più profondo della sua memoria, rispose: -no, non mi pare vi sia alcun Pattini in questa strada-. Ringraziai e tornai dall’americano che dall’angolo, a dieci metri, mi scrutava torturandosi le mani.

Cettina era rientrata, lasciando socchiusa la porta. All’americano feci cenno con la mano come per dirgli: -vai! Egli me la strinse forte tra le sue in segno di gratitudine e s’avviò. Dopo un attimo di esitazione bussò. Nello stesso istante io girai l’angolo e corsi. Corsi a portare quanto avevo guadagnato a Nico e a Titti. L’americano, malgrado varie ricerche, non lo rividi più o non lo riconobbi, né seppi mai cosa successe, se successe, quella sera tra lui e la Cettina. Di mio padre, come t’ho detto, non s’era saputo più nulla. Mia madre, per poche lire, faceva le pulizie in casa di qualche signorotto della città. Nico e Titti erano cresciuti e con i sacrifici di mia madre frequentavano la scuola primaria: Nico la quinta classe e Titti la prima. Francesco, ormai diciannovenne, era sulla buona strada per diventare un bravo carpentiere, ma per il momento doveva accontentarsi di quel che gli davano come salario. Io avevo da poco compiuti i miei studi della scuola dell’obbligo.- Tony e Gisella erano giunti nei pressi di una panchina e la ragazza tirandolo per una mano che stringeva nella sua sinistra lo invitò senza interromperlo a sedersi accanto a lei. Egli la guardò per un attimo incuriosito, le sfiorò le labbra con un bacio. Poi continuò:

-Mi sarebbe piaciuto continuare gli studi ma la miseria familiare aveva sbarrato la strada ad ogni mia speranza. M’era rimasto l’amore per la lettura e leggevo. Leggevo tutto quel che mi capitava: romanzi, fumetti, grammatiche, vecchi fogli di giornale e vecchie riviste trovate qua e là o che portava mia madre a casa per avvolgere qualche utensile. Vivevo di fantasia. Tuttavia a quindici anni non me la sentivo di essere ancora di peso a mia madre, sulla quale già gravavano abbastanza Nico e Titti. Avevo deciso quindi che dovevo provvedere io a me stesso, e vi avrei provveduto: dovevo cercarmi un lavoro. Trascorsero alcuni giorni e il mio piano andava maturando. Una sera, durante l’unico pasto che ci riuniva attorno alla tavola, dissi a mia madre che presto non le sarei stato più di peso. Francesco mi guardò simpaticamente meravigliato, incuriosito e quasi sorpreso. Dapprima mia madre si rallegrò, poi si preoccupò, poi fu sovrappensiero e al mio rifiuto di spiegarle in quale maniera avrei provveduto mi disse: -attento a quel che fai, Tony-. -E lascialo fare…- intervenne Francesco -Deve pure incominciare a muoversi con le proprie gambe-. I discorsi si chiusero a quel punto.

L’indomani uscendo da casa dissi a mia madre che non sapevo a che ora sarei rientrato e se sarei rientrato. Ella non diede peso particolare alle mie parole, o non le sentì tutte. Rivedo ancora quel momento. Erano circa le dieci del mattino. Mia madre rassettava la casa, povera donna, e non le restava tempo libero per alzare gli occhi al cielo neppure per lamentarsi o per ringraziare quel Qualcuno a cui lei credeva e che le faceva superare le difficoltà che ogni giorno condivano la sua esistenza. Fuori, per strada, un cielo terso campeggiava su ogni cosa. Le donne davanti a casa sciacquavano la biancheria. I bambini si rincorrevano con le scarpe sfondate e i pantaloni corti rattoppati. Un calzolaio, seduto davanti all’uscio di casa e davanti al suo deschetto, martellava con forza la suola di una scarpa per renderla impermeabile. Una vecchietta, vestita di nero, prendeva il sole del mattino lamentandosi del baccano che facevano i bambini mentre si rincorrevano. Quel mattino, mentre mi allontanavo, attraversai questa scena. E’ rimasta fissata nella memoria come su una tela e ancora non riesco a darmene la spiegazione. Forse perché ero convinto di partire per la conquista del mondo. Quando rientrai, nel pomeriggio, mia madre non era in casa. Nico e Titti avevano mangiato un panino che mia madre aveva lasciato per loro sul tavolo ed erano intenti a svolgere i compiti che le rispettive maestre avevano loro assegnati.

Riferirono che la mamma era andata dalla signora Rosetta per dei lavori domestici. Così aveva lasciato scritto su un foglietto di carta. Rosetta era la moglie di un medico, consigliere comunale e, per il solo fatto di essere moglie di un medico, e non solo, ma anche consigliere comunale, benché dell’opposizione, si considerava, ed era considerata, persona ricca, altolocata ed importante, che poteva guardare e giudicare chiunque dall’alto, emettendo sentenze che nessuno le richiedeva. Domestiche fisse in casa non ne voleva, perché, diceva, le portavano via tutta la roba e poi non finivano mai di chiedere, chiedere, chiedere. Quel giorno, costretta dalla necessità, aveva dovuto ricorrere ai servigi di mia madre, ormai considerata vedova e madre di quattro figli, quasi per carità cristiana, diceva lei. Per pochi soldi mia madre le aveva pulito ogni angolo della casa e, poco prima di andar via, avendo visto passare davanti a sé il medico, si fece un gran coraggio e chiese un consiglio per debellare un mal di testa che da alcuni giorni la attanagliava. La signora Rosetta lasciò fare e dire al marito e quando ormai fu sera inoltrata disse alla donna che aveva finito e che poteva andare via. Le aprì la porta che dava sul pianerottolo di casa e attese che mia madre andasse via. Mia madre la guardò come chi non comprende. -Potete andare!- le disse la signora.

-Ma…- -Dite, Maria, cosa vi occorre? -Signora, lei mi deve scusare. Ma, se è possibile… Siamo senza pane in casa… Uno dei miei ragazzi è senza lavoro, due bambini piccoli hanno bisogno di tutto…. -Ah, capisco… potevate parlare prima- disse infastidita e con un sorriso di sufficienza Rosetta e, preso mezzo chilo di pane dalla dispensa, glielo porse, augurandole la buona serata. -No, signora, forse non mi sono spiegata… Lei perdonerà la mia ignoranza… e la mia insistenza. Non abbiamo più nulla in casa e devo correre a fare un po’ di spesa prima che i negozi chiudano. Non ho più denaro. Se mi vuol pagare il lavoro che lei ha avuto la bontà di farmi fare… io la ringrazio tantissimo. -Ah, sì, ma voi forse avete dimenticato un particolare. Voi avete chiesto una consulenza medica a mio marito. Voi sapete benissimo che un medico studia per tanti anni, deve aggiornarsi continuamente per mantenere in vita una massa di persone, spesso irriconoscenti e più ottuse delle bestie. Voi dovreste pagare mio marito e vi assicuro che il suo onorario sarebbe molto più alto di quanto io devo a voi, ma siccome io sono di animo buono e comprendo la vostra situazione familiare non pretendo nulla e… non vi devo nulla.

La povera donna di mia madre la fissava sbalordita e incredula. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non le riuscì. -Buona serata, Maria. Scusate, ora ho da fare- e così dicendo accompagnò con una leggera pressione della mano il gomito di mia madre fuori dalla porta. -Buona sera…- disse quasi a se stessa mia madre mentre, già nella strada, sentiva chiudersi la porta alle spalle. Non seppe mai dire per quanto tempo stette a guardare quella porta mentre tutti i sentimenti, buoni e cattivi, pulsavano al suo cervello. Un odio indomabile le rodeva i visceri, più che la fame sua e dei suoi bambini. Il mondo attorno a lei girava vorticosamente e un desiderio di distruggere, di annientare tutto e tutti la pervadeva. Nico e Titti -pensava- a quell’ora forse giocavano in casa, ma appena l’avessero vista rientrare si sarebbero ricordati di avere fame. Io probabilmente ancora non ero rientrato. Quel povero ragazzo di suo figlio certamente era di qua e di là alla ricerca di qualche cosa da fare. Francesco avrebbe ancora tardato per tornare dal lavoro. Mentre camminava lungo il marciapiedi una macchina percorse correndo la strada e schizzi d’acqua fangosa sulle scarpe e sulle caviglie nude la fecero tornare in sé. Pensando alle sue quattro creature il suo animo s’era un po’ acquetato. Affrettò il passo e rientrò a casa.

Titti era intenta a scarabocchiare un foglio che l’indomani avrebbe dovuto far vedere alla maestra, ma, al sopraggiungere della madre, corse alla porta e spalancandola gridò: -mamma, mamma, Nico mi ha buttato per terra e non mi ha fatto disegnare! Mio fratello, di quattro anni maggiore di lei, si era rannicchiato in un angolo e tutto teso attendeva i rimproveri della madre, che guardò entrambi per un attimo e, accarezzata la testa della bambina, corse nell’altra stanza, dove io mi ero buttato sul letto e guardavo il soffitto. Francesco giunse poco dopo col viso accaldato. Aveva la febbre alta, ma tendeva a diminuire, disse. -Francesco, cos’hai?… -Nulla, mamma… -Come ti senti? -Sento caldo. Lei guardò il figliolo e gli preparò una mistura composta di acqua bollita con alloro erbe e miele, che le aveva consigliato un’amica di sua cugina Sofia. Tutti qualcosa mangiammo anche quella sera. Quando fummo alla fine dell’unico pasto giornaliero Francesco mi chiese cosa avessi fatto quel giorno. Gli risposi che avevo cercato un lavoro qualsiasi, che avevo avuto qualche promessa, ma che non avevo molte speranze.

Da mia madre sapemmo cosa era avvenuto a casa di Rosetta e a quel punto io e Francesco balzammo in piedi come se volessimo correre subito a renderle giustizia. Ma lei ci rasserenò e ci promise che avrebbe trovato lei il modo di farsi dare quanto le spettava. Nico e Titti dissero di essere stati bravi a scuola e che avevano già svolti tutti i compiti loro assegnati per casa. Francesco, malgrado accusasse ancora molto caldo, fissando mia madre, in modo pacato chiese: -di quanto denaro disponiamo? -Tutti i nostri risparmi sono circa un milione di lire. Perché mi fai questa domanda? -Sono diversi giorni che ci penso. Non sarebbe una buona idea se facessimo studiare Tony? Mia madre lo guardò con tanto d’occhi. -Come puoi pensare una cosa simile se riusciamo appena ad assicurarci il necessario per ogni giorno? -Lo so. Per il momento non guadagniamo abbastanza noi, però ce la faremo, vedrai. Che dici? Domani vi potete informare di quali documenti sono necessari per iscriverlo all’Istituto di Ragioneria? Mi pare che questo sia il desiderio suo. Poi rivolto verso di me: -è vero Tony? Tu che ne dici? Te la senti?- Guardai mia madre e mi resi conto che il suo viso era un misto di perplessità e di felicità. Guardai mio fratello che attendeva il mio assenso con tanto d’occhi spalancati e con un paterno sorriso sulle labbra. Gli saltai letteralmente addosso e lo abbracciai.

Non parlai. Anzi, non parlammo. Il silenzio ci univa ed ognuno cercava di nascondere qualche lacrima di gioia mista a commozione. Mai come quella sera mia madre si era resa conto che il suo Francesco non era più un ragazzo, si sentì sicura e con un cenno del capo acconsentì. Io ero lì, seduto accanto a mia madre, e gli occhi mi sfavillavano. -Tony, -riprese Francesco -noi ti aiuteremo, ma tu dovrai far vedere a tutti di che cosa sono capaci i Ragona. Vogliamo essere rispettati da tutti. Io sono un carpentiere alle dipendenze, ma mi piacerebbe essere un impresario per conto mio. Tu quello che vorrai essere sarai-. Lo fissai, gli sorrisi e in quel sorriso c’era tutto il mio assenso e la mia gratitudine. Gisella, presa da commozione, si girò dall’altra parte e, come se volesse soffiarsi il naso, s’asciugò due lacrimoni silenziosi, che, senza preavviso, scendevano lungo le sue guance. -Cinque anni dopo- continuò Tony, che si era accorto della commozione dell’amica, ma che non voleva dare eccessiva importanza al proprio racconto, né dilungarsi ulteriormente -ebbi il mio bel diploma di ragioniere.

Ora posso fare il cameriere a tempo pieno e con tutta tranquillità- annunciai a mia madre, porgendole l’attestato perché lo conservasse. -Figlio mio, bisogna avere pazienza. Come hanno fatto gli altri farai tu. -Sono tutti seduti al bar, senza una lira in tasca e parlano, parlano senza concludere niente. Io me ne andrò. In questa città di pidocchi non c’è vita, manca tutto e io non voglio morire di noia e di fame. Vorrei iscrivermi nella facoltà di lingue straniere, ma denaro non ne abbiamo. Forse riuscirei a procurarmelo. Ma poi, penso, a che cosa mi serve una laurea in lingue? Per farmi chiamare dottore? Dottore morto di fame?- Mia madre cercò di tranquillizzarmi e carezzandomi ripeteva che se non ero stato il primo della classe ero stato certamente tra i primi. -Devi avere fiducia. Vedrai che qualcosa farai. Per ora non pensarci. -E quando, quando devo pensarci? Quando mi chiameranno “signor Ragioniere”, per sfottermi!? No, io non voglio restare tra i citrulli che vegetano con l’unica preoccupazione di cosa troveranno a casa da mangiare. Io voglio guadagnarmelo il mio pane. Non posso sempre vivere con la speranza di Francesco. -Ma anche tu hai portato qualcosa ogni estate e tutti i sabati e le sante domeniche. Bisogna accontentarsi, figlio mio.

E per fare lo schiavetto dei proprietari, dei gestori e dei clienti dei ristoranti e delle pizzerie c’era proprio bisogno di un diploma di ragioniere? E poi, un ragioniere qua sai cosa ci fa, se e quando trova un lavoro? Gli danno una miseria a fine mese perché chiuda i conti a qualche piccola azienda: neppure la metà di quanto guadagna un garzone di contadino per vendemmiare. In quel momento entrò Francesco. -Ciao, fratello! -Ciao. -E allora, te l’hanno dato questo pezzo di carta? -Si, l’ho conservato- intervenne mia madre. Mio fratello notando che io non avevo alcun entusiasmo né contentezza: -ma che hai?- mi chiese. -Ho l’impressione che ho buttato cinque anni della mia vita-. -Perché hai quest’impressione?- -Perché tutti i miei amici passano il loro tempo davanti al bar, non avendo nulla di meglio da fare.- -Tu lasciali stare i tuoi amici. Io ho bisogno di una mano per mettere in piedi un ufficio. Entrate, uscite, fatture, ordini, commissioni e tante altre faccende a cui io non riesco più a badare per mancanza di tempo e anche per… incompetenza. Come sai, per ora devo affidarmi ad un consulente e non ho voluto assumere nessuno fino ad oggi perché ho atteso che tu ti diplomassi e per sapere se ti va di affiancarmi.

D’altra parte non potrei fidarmi di nessuno più di quanto possa fidarmi di mio fratello. Inizialmente avremmo qualche difficoltà, ma, sono certo, in breve le supereremmo tutte. Nessuno nasce insegnato. Unica difficoltà che ho io è sapere se per te va bene. Se ti va di lavorare con me. Col tempo avresti l’intera impresa sulle tue spalle dal punto di vista contabilità. Di stipendio parleremo dopo. Tu che ne pensi?- -Non so se sono capace.- -Certamente in questo momento no, non sei capace, ma quando inizierai ti accorgerai che quando le difficoltà si presenteranno si risolveranno. Allora, ci sei?- -Ci sono- gli risposi, abbassando la testa, come se mi vergognassi di non so che cosa, forse della mia supposta incapacità. Da allora sono trascorsi circa cinque anni. Mio fratello ha un’impresa con alle dipendenze quindici operai. Io svolgo tutto il lavoro di ufficio, provvedo ai pagamenti e alle riscossioni, ho realmente tutta la contabilità sulle mie spalle, come mi aveva preannunciato quel lontano giorno Francesco. Mia madre non va più ad espletare lavori in casa di altri, mio fratello Nico e mia sorella Titti continuano i loro studi. Di me ti ho detto tutto.

Credo di non avere tralasciato nulla. Ero partito da quella che mi sembra ancora una barzelletta con Duck l’americano, ed ho finito con l’annoiarti. -Non mi hai annoiata affatto e non ho perso una sola parola di quanto hai raccontato. Interessante!- concluse la ragazza. E l’abbracciò.