I “vecchi” sono esperienza, sono storia, sono memoria.

Rubriche/ PensieriParole/di Piero D’Errico

Galatina – I “vecchi” son tutti belli, parlano le loro rughe, le loro mani stanche le loro storie, i loro racconti, le loro “lezioni”.
I “vecchi” sono esperienza, sono storia, sono memoria.
Parlano i loro occhi, i loro occhi piccoli che hanno visto tante cose, che hanno visto i tanti ritorni, le tante partenze.
Quella valigia di cartone passata dal finestrino, racconti di fame, di miseria e di povertà.
I loro ritorni a casa, la speranza e la voglia di non dover più ripartire, la speranza che nel frattempo qualcosa era cambiata.
Accorgersi che non era cambiato niente, che non cambiava mai niente.
Le ripartenze, ogni volta con meno speranza o forse senza più la speranza di poter un giorno non lontano, fare ritorno per sempre.
L’incontro con quelle città fredde e chiuse, con quella gente che ti guardava con occhi strani quasi fossi diverso, che “ti evitava”, “ti emarginava”.
Li vedi seduti sulle panchine di un parco a consumare il tempo, il tempo rimasto.
Impegnati in passeggiate interrotte dall’affanno o in quei discorsi interrotti dalla tosse.
Sempre pronti a raccontare le loro storie, le loro storie preferite e nel racconto che non finisce mai, riviverle.
Storie di guerra, di sofferenza e di morte, storie di un duro lavoro nei campi senza mai contare le ore.
Continue pause per ricordare, per ricordare date e luoghi, e nel ricordare veder luccicare i loro occhi e tremare la loro voce.
Sempre pronti a mostrarti una foto in bianco e nero di quando avevano vent’anni.
L’abitudine di svegliarsi all’alba, di dare la colpa di ogni cosa a qualcosa, mai all’età.
Sempre colpa del freddo, forse del caldo, quegli “acciacchi” improvvisi, nascosti con sorrisi.
Quelle medicine dimenticate, forse finite o forse mai sopportate.