Fortuna per noi è avere l’essenziale, non mettere in fila i desideri, essere ancora vivi e il mare calmo di quella notte.

Rubriche/Opinioni/di Piero D’Errico

Ero da poco più di un anno arrivata in Italia, tra Lampedusa, Torino, Brindisi e Lecce. Un permesso provvisorio di sei mesi ormai scaduto e l’impossibilità di tornare a Torino per il rinnovo.

Il trattamento sommario e sbrigativo con cui venivamo trattati, la difficoltà di capire e qualche volta la volontà di qualcuno a non farci capire, mi fecero ben presto convincere che forse non ero capitata nel posto giusto. Forse non volevano “neri”.

Mi raccontavano di un Paese più aperto ed accogliente dove le possibilità, non di vivere ma di sopravvivere erano maggiori. Capii solo dopo che così non era.

Ma, andiamo avanti col racconto.

Me ne andai in Francia, riuscì ad arrivare dopo un po’ di giorni.
In Francia c’era più aiuto, c’era molta più integrazione, per la prima volta in vita mia da quando ero in Europa, vedevo una vera parità tra bianchi e neri.

Lavoravano insieme nel pubblico o nel privato, avevano posti di responsabilità e in certe parti trovavo più neri che bianchi. Insomma un paese in cui mi era sembrato facile potersi integrare.
Ero stata quasi due anni in Italia, il clima carico di odio di tanta gente era compensato dalla molta più gente carica di amore, pronta ad aiutare.
Non so perché ma il mio cuore era rimasto là in Italia, nel sud dell’Italia.

Anche se pochi, avevo amici ed amiche, avevo la mia Chiesa per pregare e il “pastor” a cui confidare le mie ansie, le mie amarezze.
Fui presa dall’insicurezza e dalla malinconia, quelle strade, quelle piazze, quella gente mi erano rimaste nel cuore.

Tornai in Italia dopo mille disavventure, quasi fuggii in silenzio, di nascosto.

Tornai che era Natale, e tornai nella mia Chiesa che era in festa.
Tornai a casa mia.

Nel frattempo ero stata chiamata dalla “COMMISSION” per il rinnovo del permesso e nel frattempo ero risultata anche assente.
Ripresentai nuovamente la richiesta ed aspettai una nuova convocazione.
La chiamata arrivò che era marzo ed io alla commissione raccontai la mia storia, la mia vera storia. Tutta.

Vidi nei loro occhi un po’ di commozione e un lungo silenzio.
Poi i saluti affettuosi e poi l’attesa.

Ogni giorno aspettavo, aspettavo una telefonata che non arrivava, una notizia che non arrivava, un SI o un NO.

Mi arrivò invece in un caldo giorno di luglio un nuovo invito a presentarmi alla “COMMISSION” per chiarimenti e altre notizie.
Quel pomeriggio mi presentai e risposi a tutte le loro domande, raccontando sempre e solo la verità.
Salutai e ringraziai.

Ricordo che una signora della commissione mi chiese di raccontare in un qualsiasi contesto mi fossi trovata la mia storia, forse per dare un po’ di speranza a chi ne aveva bisogno.
Mi recai negli uffici della commissione nel mese di agosto, ma lessi solo il cartello con cui si avvisava della chiusura dell’ufficio sino al 31 agosto.

Intanto la situazione politica per quel che riguardava noi “migranti” precipitava, si dava copertura a episodi di razzismo e un po’ di odio in più si manifestava in mille modi in mille forme. Provvedimenti legislativi, giusti o no, si preparavano.

Ho avuto paura, sino a quella mattina di settembre quando recatami in Questura, mi fecero entrare in una stanza e mi fecero firmare.

Negativo” mi disse quel poliziotto con un sorriso, ed il mio sangue si gelò.

Invece no, il permesso mi era stato concesso per due anni, la mia “history” aveva convinto la commissione.
Feci foto tessera, versamento e fotocopie, presero le impronte digitali e mi lasciarono un permesso provvisorio in attesa del tesserino plastificato che doveva arrivare da Roma, dopo due mesi, così dissero.
Oggi dopo un mese esatto, non resistevo più, sono andata in Questura.
Il permesso elettronico c’era, colorato di pink e di azzurro, i colori che preferisco.

Oggi sei novembre ho ritirato il permesso umanitario che vale due anni.

Sono felice, avviso tutti e ancora non mi sembra vero.
Da oggi esisto, posso gridare presente, avere un medico, studiare l’italiano.
Oggi tutto mi sembra più bello.
Grazie Italia, e soprattutto grazie a chi mi ha aiutato, a chi mi è stato vicino in tutto questo tempo, senza mai stancarsi e dandomi forza e coraggio.
Grazie a tutti, oggi mi sento più libera, ho voglia di uscire di camminare, ho voglia di festeggiare.
Fare una bella festa con tutte le persone che conosco e anche con quelle che non conosco. Forse domenica.
Voglio dire due parole dall’altare e dare un messaggio di speranza ai miei tanti connazionali, un messaggio positivo per far star bene. Almeno un po’.

Preparerò un piatto africano, un piatto che piace a tutti e siete tutti invitati.
Il luogo, in cui festeggiare non può essere altro: la mia Chiesa.
Mi bastava solo un paese dove vivere in pace, in modo regolare, poter lavorare e vivere tranquillamente.
Non mi importava dove, anche in capo al mondo o in una qualsiasi parte del mondo. E’ stata una fatica però ce l’ho fatta.
E sono sicura che anche tanti di voi ce la faranno, basta avere “fede in DIO”, affidarsi a “
DIO”. Il resto verrà da solo”.

Questo dissi dall’altare della mia Chiesa alle dodici e trenta in punto di quella domenica.
Avrei voluto dire altre cose, aggiungere altre cose, ma l’emozione mi fece venire un nodo in gola e poi le lacrime arrivarono come un fiume in piena.

Quando alzai lo sguardo da terra vidi tutte le mie amiche “migranti” e tutti i miei amici “migranti” intorno a me.
Vidi altre lacrime in giro, ma questa volta erano di gioia non assomigliano alle lacrime che avevamo lasciato alla partenza dall’Africa, o versate nei lager della Libia o sul gommone che ci portava in Italia.
Fortuna” per noi è avere l’essenziale, non mettere in fila i desideri, “fortuna” per noi è essere ancora vivi, “fortuna” è il mare calmo di quella notte.

Scrivo appunti su un “diario”, lo faccio ogni santo giorno con la speranza che le pagine bianche che dovrò ancora riempire, non debbano più bagnarsi delle mie lacrime e con la certezza di riuscire a conservare per sempre nel mio cuore, la felicità di quella notte stellata, con un silenzio surreale tutt’intorno e noi, un centinaio di “migranti neri” sopra un gommone alla deriva, che il mare da qualche ora dondolava.

Quella mattina, qualcuno che era seduto sulla parte davanti squarciò il silenzio di quell’alba rosa, urlando: EARTH, EARTH,
e noi tutti a spostarci, ad alzarci quasi in piedi a cercare di vedere la terra.
Eravamo in Italia, eravamo in un posto carico di umanità e generosità, un posto che ci sembrò il più bello del mondo: Lampedusa.
Eravamo arrivati. Finalmente.