Quel moccioso era ancora in volo per Stoccolma, e noi sentivamo già la sua assenza.

Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Finalmente avrei potuto starmene in pace, non giocare più contro voglia a “carte” o a “racchettoni”. Ero felice.
Arrivava la sorella della mia compagna, col bambino per una quindicina di giorni.
Avrei potuto dedicarmi alle mie cose, sfogliare quella montagna di carte e di giornali che non ero mai riuscito a terminare, forse scrivere.
Non mi sfiorò neanche un po’ l’idea di trovarmi da lì a qualche ora un “moccioso” in giro per casa ad aprire rubinetti, sbattere porte, portare in giro tutti gli oggetti di casa, anche importanti, ahimè alcuni già a pezzi.
La mia vita diventò ben presto un inferno, persi pace e tranquillità, rimpiansi quell’odioso gioco a “carte” e addirittura i racchettoni.
Avrei voluto sparire, non vedere il telecomando schiacciato in tutti i suoi tasti, vedere i miei appunti e ritagli che giravano per le stanze sino a finire nella spazzatura.
Vedere la casa in disordine, trasformata in un campo di battaglia.
Prese un giorno, velocità in una discesa, lo vidi in fondo alla strada che cominciava a barcollare, perdere l’equilibrio e stamparsi per terra.
Si alzò e riprese la sua corsa senza mai fermarsi un attimo, senza un attimo di pausa. Insomma una specie di Forrest Gump bambino. Abituato a correre per le campagne del nord Europa da dove veniva, ma qua non c’erano praterie, c’erano mattoni e non tutti allo stesso livello.
Fu proprio quella volta che capii cosa vuol dire “odiare i bambini”.
E che dire di quel sottile strato di rivestimento, quella pellicola di plastica che io avevo lasciato a protezione di tante cose, staccata tutta e sparsa di qua e di là.
E del mio divano non lavabile, collezione anni ’80 “poltrone & sofà” comprato col 50 per cento, macchiato di latte e succo di frutta.
Non avevamo mai avuto un buon rapporto, si vedeva ad occhio nudo, con me stava malvolentieri, ma il giorno in cui doveva partire non si allontanò da me neanche un attimo.
E quando in aeroporto ci dovevamo salutare, non finiva più di abbracciarmi.
Vi dirò, anch’io avevo già dimenticato tutto, e se avessero potuto restare ancora un po’ sarei stato felice. Al diavolo la casa e le cose.
Ma ormai la sua manina che salutava era lontana e anche noi a salutarlo sino a vederlo sparire in braccio alla sua mamma.
Feci in tempo a dire loro una cosa, la dissi nella loro lingua, col mio inglese che spero abbiano capito, dissi: “tornate presto”.
E lo dissi veramente col cuore.
Quel moccioso era ancora in volo per Stoccolma, e noi sentivamo già la sua assenza.
I giorni che seguirono, furono tutti un pulire, togliere pastina sparsa dappertutto.
Ne trovammo ancora, anche dopo aver pulito, in ogni piega, in ogni angolo, ovunque. Ma forse non più di quanto ne avevamo sparsa noi, alla sua età.