Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Sempre controvoglia ma quasi mai assente, per quel che ricordo solo qualche giorno di assenza e sempre giustificata.

Era un incontro, un appuntamento ed era abitudine trovarsi anche dopo, in una continuità di relazioni e occasioni che la “scuola” stessa offriva.

E poi vuoi mettere l’emozione di scrivere una frase corretta in inglese o francese oppure in latino alla lavagna o magari andare in castigo dietro la stessa lavagna nel silenzio improvviso dell’aula, o alzare la
mano per essere interrogato o nascondersi dietro i compagni di classe per non essere interrogato. Troppo bello.

E che dire poi di un breve ritardo quella mattina che proprio non riuscivi ad aprire gli occhi o di un ingiustificato anticipo che ti faceva finire ogni discorso e sopratutto ammirare quel maglione nuovo che avevi messo per la prima volta.

Che dire poi delle amicizie o degli amori che nascevano e morivano tra i banchi di scuola, degli sguardi interessati e mai confessati o del copiare qualcosa che non sapevi o sentire un suggerimento che aspettavi.

Che dire dell’attesa di una vacanza o della sorpresa di un giorno in cui inaspettatamente si usciva prima.
Che dire degli scambi di idee, di opinioni, di soluzioni, dell’ora di palestra o dell’ora di religione, che dire degli spazi di socialità che si aprivano ogni giorno davanti a noi.

Quel chiacchiericcio in aula, il suono della campanella per farci entrare o farci uscire, per far alternare di ora in ora i nostri insegnanti.
Che dire delle risate per l’ imitazione del prof di lettere o delle sfide a pallone tra classi o anche tra istituti, e noi del “commerciale” nemici per sempre dei “fighetti” del classico.

E la pioggia che ci sorprendeva proprio all’uscita o peggio ancora per strada e noi a cercare un portone aperto per ripararci.
Diventare allora “ragioniere” era, più per i genitori che per i figli, un sogno, o anche una “tendenza”, significava speranza di veder cambiata la propria vita, lasciar cadere dalle proprie mani un “attrezzo” forse
pesante e prendere in mano una “penna” di sicuro più leggera.

Significava diventare “importante” e anche “intelligente”.
Insomma andare a scuola mi piaceva, studiare un po’ meno.
Forse “troppo meno”.
Mi capitò un giorno, di sentir parlare di un VIRUS che stava aggredendo il mondo.

Che stava raggiungendo ogni posto, ogni angolo remoto di un mondo che sino ad allora ci era sembrato tanto grande e che avevamo all’improvviso
scoperto essere invece troppo piccolo.

Da qualche giorno avevo anche sentito parlare di morti, di ospedali, di ricoveri e di “chiusure”.
Non avevo però capito bene, non avevo capito abbastanza.

Mi ero svegliato alla solita ora, fatto le solite cose, aggiustato libri e quaderni e via di corsa a scuola percorrendo a piedi quel chilometro e più, nell’aria tiepida di quella mattina.

Poca gente per strada, pochi studenti in giro: -” E’ tardi – pensai e “alzai il passo”.
Arrivai a scuola in un lampo, c’era un gruppo di studenti davanti al portone della scuola ancora chiuso.

Mi avvicinai e sul portone sopra un foglio bianco, con pennarello blu c’era scritto: CHIUSA PER COVID.

In altre occasioni, forse la cosa ci avrebbe dato gioia, ma quella scritta non prometteva niente di buono.
Tornammo a casa carichi di malinconia, lo sguardo dei nostri genitori lasciava trasparire tanta preoccupazione.

Quell’anno scolastico andò avanti così, insieme alla scuola finì la nostra vita sociale che si costruiva a scuola, la vita sociale che aveva al centro “la scuola”.
I nostri occhi restarono a lungo tristi e smarriti, ci sembrava all’improvviso essere diventati inutili, ogni tanto si aprivano i libri, si seguivano le indicazioni
che ci venivano fornite ma non era più la stessa cosa.

La scuola rimase a lungo chiusa. Forse troppo a lungo chiusa.
Poi un bel giorno quel portane si aprì, era una giornata di sole, quel sole che non tradisce, quel sole che contagia e che fa risplendere gli occhi, lo sguardo,
il cuore.

Restammo a lungo con la paura di trovare ancora quel portone della scuola chiuso, poi pian piano tutto tornò come prima.
Quel “tempo” ancora oggi lo ricordiamo tutti con dolore, ma tu vacci a capire.

Ci sembrava di odiare quel contesto scolastico, tra nostre immotivate antipatie e presunte antipatie di altri verso noi, prof compresi.
Non vedevamo l’ora che la scuola finisse e invece ora non vedevamo l’ora che riaprisse.

Avevamo fatto “sciopero” senza un motivo, avevamo inventato mille scuse per un giorno di vacanza, avevamo inventato mal di testa e mal di pancia ed ora che la scuola era chiusa ci mancava da morire.

Che strano, non c’eravamo mai accorti di essere così straordinariamente attaccati, innamorati di tutto quel mondo che la scuola racchiudeva.
Era un momento per vederci, incontrarci, per imparare, per immaginare, per sognare.

Era un momento per costruire le nostre vite, le nostre vite che si erano fermate all’improvviso, rimaste chiuse in quella scuola, dietro quel foglio bianco su cui con un pennarello blu c’era scritto:
CHIUSA PER COVID.