Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Quando ci dissero: “la scuola resterà chiusa” poco mancò che non si levasse un urlo di gioia da far sentire sino alla periferia della città.

Era come se cominciassero le vacanze, sollevati dal peso delle interrogazioni, dal peso delle giustificazioni, sollevati dal peso della ripetizioni.
Insomma quello che pensavamo un breve periodo di chiusura scolastica, forse ci avrebbe dato il tempo di recuperare, il tempo di riposare.

All’inizio fu proprio così, poi no, a mano a mano passavano i giorni e non succedeva mai niente di nuovo, mi cominciò a mancare la classe, mi cominciarono a mancare gli insegnanti, mi cominciò a mancare il rapporto, la vicinanza, il fare domande, avere risposte, avere spiegazioni, superare le difficoltà, riempire le curiosità.
Mi mancava il suono della campanella, la preparazione dello zaino, il chiacchiericcio della classe.

Mi mancava lo sguardo di mia madre, lo sguardo che cercavo appena uscita dalla scuola.
Le sue domande, le mie risposte.
Insomma cominciò a mancarmi tutto e non fui felice quando dopo qualche giorno ci fu chiaramente detto che l’anno scolastico era finito, la scuola sarebbe
ricominciata a settembre.
Fu un colpo al cuore, fu una grande delusione.
Non avevo capito di amare così tanto la quotidianità della mia classe, il vedersi tutti i santi giorni, i saluti, i compiti.

Non avevo capito che, malgrado mi sforzassi a non riconoscerlo, mi piaceva studiare, mi piaceva studiare in quel modo tradizionale che avevo fatto sempre,
in quel modo in cui ero abituata.
Mi mancava l’attesa della domenica, della pausa, della materia preferita, della materia odiata che mi impegnavo a capire. Mi mancava quel luogo in cui
incontrarsi, quel luogo in cui imparare, in cui sognare.
L’anno scolastico era finito, non conoscevamo i dettagli, sapevamo però con certezza che era finito.
Era finito così, senza un “ciao”, era finito così, nel peggiore dei modi.

Sarei stata disposta a prendere qualche brutto voto, fare scena muta in una interrogazione dopo aver tanto studiato, ma non capito sino in fondo,
insomma avrei dato tutto pur di tornare in classe, stare seduta al mio banco, accorgermi di aver finito il quaderno, di aver dimenticato la penna.
Fu difficile, molto difficile trovare un nuovo equilibrio.

Le lezioni “online” furono una fatica, erano fredde, non avevano la gioia che dava il solo pensare che l’anno scolastico si avvicinava alla fine, che avevamo
quasi completato lo studio delle materie, che al diario erano rimaste poche pagine, che lo zaino si era sfilacciato e sporcato.

Forse non avevamo capito lezioni, spiegazioni e conclusioni, ma avevamo capito la cosa più importante, la cosa più evidente.

Avevamo capito la bellezza della scuola, la bellezza di andare a scuola.
Avevo già letto tutte le “pagine saltate”, saltate per la chiusura anticipata e inaspettata della scuola, quando finalmente arrivò settembre.
Lo stavamo aspettando da un po’, era l’inizio di un nuovo anno scolastico, l’inizio della normalità, tutto era alle spalle, era tutto un brutto ricordo.
Era una delle più belle giornate di primavere, forse la più bella e da allora di tempo ne era passato.
Accompagnavo a scuola mia figlia, alla scuola poco distante, la stessa scuola che io avevo frequentato in un’aula più avanti della sua.
Strada facendo cominciai a raccontare: “Se ben ricordo, era il duemila/20, un brutto virus minacciava il mondo.
Tanti, tanti morti, tanti contagi.
Dovevamo stare a distanza e la scuola così com’era non lo consentiva.
Vederla chiusa, all’improvviso fu triste, fu una cosa dolorosa per tutti noi studenti.

Si distanziarono le lezioni, le amicizie, il rapporto con i nostri insegnanti, si distanziò la nostra quotidianità, le nostre abitudini.
Era per me quello che oggi è per te, era il primo giorno di scuola, avevo uguale la tua età, ma eravamo diversi, eravamo felici, non vedevamo l ‘ora di entrare a scuola.
Finalmente la campanella suonò, salutai mia madre che mi aveva accompagnata e sparii. Corsi in classe, attraversai il giardino, salii le scale, feci tutto il corridoio e mi fermai sulla porta .

Avevo fatto una corsa, ero stanca e sudata, e dentro
di me sentivo una voce gridare: quanto mi sei mancata”.
Mia figlia guardava più me che davanti, aveva capito che il racconto di quella storia era per me importante.
“Mamma, me lo hai raccontata non so quante volte, ma io ascolto sempre volentieri”.
Si era vero, quella storia l’avevo raccontata tante, tante volte.
Volevo trasmettere, quelle sensazioni, quelle preoccupazioni che io avevo provato e avevo ancora conservato.
Non so se ci riuscii.
Il suono della campanella ci divise, feci appena in tempo ad afferrare al volo l ‘ultimo bacio, prima che il portone si chiudesse.