Tratto dal libro di Marino Giannuzzo “ Saro ed altri racconti ”. 

Ringraziamo l’autore per aver consentito alla pubblicazione del suo romanzo su  queste pagine. 

Saro

L’uomo si fermò.

C’era buio. Solo la luce di un lampione pubblico, in fondo alla strada, che oscillava nel vento della sera, né fredda né calda, di ottobre.

Davanti a lui la vecchia casa, che era stata dei nonni, i Capizzi, poi di suo padre. Ora di nessuno, quasi, perché era stata abbandonata in attesa di tempi migliori per ristrutturarla.

Nel buio anche la casa era nera, e il portoncino e le finestre, ormai corpo unico con i muri. Sulla destra i resti di quella che era stata l’abitazione di una zia di suo padre. Di essa restava solo un muro diroccato che fiancheggiava la strada. All’interno si indovinava l’ombra del vecchio mandorlo, immobile e silenzioso.

Sulla sinistra un muretto basso in pietra delimitava il terreno che circondava la casa; anch’esso qua e là diroccato. Si tirò sul muretto e saltò giù, dall’altra parte, nel terreno.

Dopo qualche minuto fu di ritorno, scavalcò nuovamente il muretto, s’avvicinò al vecchio portoncino, introdusse una vecchia chiave arrugginita. Dopo alcuni tentativi finalmente aprì, diede uno sguardo a destra e a sinistra, nella strada; entrò; richiuse.

Otto mesi che correva, da subito dopo Pasqua, e già s’avvicinava Natale. Sarebbe stato il secondo Natale dalla morte di suo padre. Tutti sapevano che era stato un incidente, un maledetto incidente d’auto per Nicola Capizzi. Ma Saro non ne era stato mai convinto e aveva voluto sapere.

La polizia giudiziaria e il medico legale avevano deciso: decesso istantaneo per imperizia nella guida. Un imberbe Sostituto Procuratore aveva scarabocchiato alcune sigle su dei fogli volanti. Il caso era stato dichiarato chiuso e archiviato.

Saro aveva finto di credere. Anzi era stato lui a convincere la madre che le auto purtroppo combinano brutti scherzi. Sono belle, utili, confortevoli, ma certe volte tradiscono e allora non c’è nulla da fare; è il destino.

E il destino così aveva voluto.

Ma egli non credeva al destino e non si era dato pace. Aveva voluto sapere. E aveva saputo. Una sera, rincasando più tardi del solito, fece in modo che Leo, il figlio della signora Dora, gli offrisse un passaggio con la sua auto. Non rifiutò per non far dispiacere all’amico, ma, disse, avrebbe preferito fare quattro passi.

Aprì lo sportello e si accomodò.

– A dire il vero non è che abbia sonno stasera – aggiunse, mentre si accomodava meglio sul sedile anteriore, riservato al passeggero.

– Se vuoi andiamo a fare un giro largo, ma non a piedi … – rispose Leo.

E mentre parlava mise in moto la piccola utilitaria, ancora odorante di nuovo, e partì.

– Parlarono di studi e di ragazze. Poi Saro propose di allungare verso la campagna. Dopo qualche chilometro Leo svoltò per una strada asfaltata di fresco e accelerò.

– Benzina ce n’è – disse.

– Ma avvertì che qualcosa di duro gli era penetrato fin dentro le costole di destra e capì. Capì di avere sbagliato tutto quella sera. Di essersi sentito troppo sicuro. Cercò di reagire scherzosamente: – Non fare lo stronzo, Saro; chi vuoi spaventare con questo pezzo di ferro?

– Voglio metterti alla prova. Voglio vedere se hai coraggio. Ma non fare fesserie, è carica. Pensa a guidare. Se superi la prova sarai ricco e presto -.

– Leo non sapeva come interpretare il tutto. Per un attimo volle convincersi che l’amico volesse davvero metterlo alla prova per poi proporgli qualcosa di molto rischioso; anche se di Saro aveva l’opinione, come del resto tutti quelli che lo conoscevano, che fosse un ottimo ragazzo, magari un po’ più buono di quanto fosse necessario.

– Chi la fa l’aspetti! E, quando succede, senza lagnarsi – ammonì in tono scherzoso Leo.

– Giusto. Per ora vediamo se la superi tu questa prova … Così dicendo spinse ancora un poco la pistola tra le costole dell’amico.

– Va bene – e si rese conto che non riusciva a togliere il piede dall’acceleratore, come bloccato da un qualcosa che non aveva nulla in comune con lo scherzo.

– Proseguirono ancora senza parlare per alcuni chilometri.

– La prossima a destra. Vai piano …

– Come se quelle parole avessero sbloccato il sistema nervoso di Leo i

piedi gli ridivennero sciolti, la destra scalò la marcia, la sinistra

accompagnò lo sterzo nella curva.

– Più piano.

– Più piano di così … si muore.

Si sentì più sicuro. Avvertiva che nella voce di Saro non c’era odio.

Forse Saro stava mettendo alla prova le proprie capacità e ci stava riuscendo perché aveva la voce pacata, ferma. Anche la sua mano non tremava, sintomo di eccezionale autocontrollo. Però non bisognava fare movimenti bruschi.

Se la pistola era davvero carica un colpo poteva accidentalmente partire. Poteva guidare tranquillo. Egli non c’entrava e Saro non sapeva. Forse voleva sapere.

– Fermati! – ordinò Saro con voce fatta più decisa.

Leo accostò. Davanti a loro si apriva uno spiazzo. Spense il motore.

Rimase con le mani ferme sullo sterzo e s’accorse che in cielo c’era la luna.

– Metti le mani dietro la nuca e scendi piano senza voltarti.

– Ora lo scherzo sta diventando pesante … – si lamentò Leo, mentre si tirava giù dall’auto.

– Fai il bravo; fino in fondo. Sta’ calmo e fa’ quello che ti dico io.

Quasi di scatto Saro attraversò il sedile sotto lo sterzo e scivolò a terra alle spalle di Leo, che la canna della pistola ora la sentì incollata alla schiena, proprio sulla colonna vertebrale; e lo spingeva.

Senza parlare Saro lo fece dirigere tra due filari di ulivi giganteschi, in mezzo ai quali, alta, dominava la luna. Dopo circa duecento metri raggiunsero la bocca di un pozzo, delimitata da un muretto in pietra, alto mezzo metro. Era scoperto.

– Fermati e siediti!

– Ora basta! – rispose indispettito Leo, facendo capire che ormai si stava scocciando e che non era più disposto ad assecondare l’amico.

Nella sua voce però Saro avvertì un tremolio e per un attimo ebbe paura anche lui.

– Fino in fondo.

Così dicendo lo spinse sull’orlo del pozzo e con la pistola lo costrinse a voltarsi e a sedersi. Puntandogli l’arma e indietreggiando si allontanò di due passi: – Se ti muovi sparo! Le mani sempre dietro la testa! –

Leo si rese conto che sentiva freddo, aveva i brividi, come se all’improvviso fosse sopraggiunta la febbre. Stringeva le ginocchia una contro l’altra perché non tremassero.

– E chi si muove? – disse, quasi scherzando.

– Tu sei il migliore amico mio; vero?

– Certo; ma tu non sei neppure il peggiore amico mio, se mi fai questi scherzi.

– Lo scherzo ancora non è cominciato. Allora … dov’eri la sera dell’antivigilia di Natale?

Leo sentì il vuoto sotto i suoi piedi e dentro la testa. Doveva controllarsi. Poteva perdere l’equilibrio e rovesciarsi nel pozzo. Aggredire Saro era impensabile.

– A Milano, da mia sorella – rispose il più presto che poté.

– Ho controllato. La vigilia … eri a Milano. L’antivigilia no! dov’eri?

– A Milano!

– Cerca di capirmi. – riprese suadente Saro. – Qui, in paese, ad Alcamo, dov’eri? In quale contrada? Mi hai capito ora?

– Ti dico che ero a …

– Basta! – gridò Saro, senza preoccuparsi se qualcuno potesse o volesse sentirlo. Poi continuò pacato: – Con chi eri allora?

– Solo.

Senti, Leo. Voglio sapere com’è andata. Può darsi che ci sia qualche speranza per te. Ma voglio sapere tutto.

– Io non c’entro …

Saro restò in silenzio, in attesa che Leo continuasse. E Leo dopo qualche attimo di pausa aggiunse:

– Io ho sempre voluto bene a voi; a te, a tuo padre, alla tua famiglia …

Se invece del chiarore della luna ci fosse stato quello del sole Leo avrebbe visto che il viso dell’amico era diventato paonazzo dalla bile e dall’odio e che il gesto di volergli fracassare il cranio con la pistola ne era la conseguenza.

L’ira di Saro scoppiò. D’altronde attendere la confessione di Leo significava perdere ancora tempo e correre ulteriori inutili rischi. E comunque non era necessaria.

– Tu sei stato sempre un verme. La tua auto, quella carriola vecchia che hai dato in permuta a maggio, quando ti hanno regalato questa nuova, la sera dell’antivigilia di Natale perché si trovava in campagna, da mio padre?

– Non so nulla …

Improvviso Saro fece un passo avanti e colpì Leo con un calcio in uno stinco. Leo istintivamente scattò in piedi come per rispondere all’aggressione di Saro, ma questi fece un passo indietro e puntandogli la pistola in faccia: – Sta’ calmo e siediti…

Leo si rimise lentamente a sedere.

– Con una gamba nel pozzo! – scandì Saro con tono sfottente. Leo ormai aveva capito che non c’era più alcuna speranza, ma se voleva tenerne vivo qualche barlume, anche uno solo, doveva assecondare Saro, in attesa.

Fece quindi passare una gamba al di là del muretto, che si trovò penzolante nel vuoto, intrecciò le dita delle mani e le posò sulla testa.

– Riprendiamo; e veloci, che si fa tardi …

– Puoi anche ammazzarmi, ma non so nulla.

– Lo farò subito se mi fai perdere la calma.

– Mi puoi ammazzare.

– Allora parlo io. Il pomeriggio dell’antivigilia di Natale tu sei andato a cercare mio padre, in campagna. Nessuno ti ha visto; o almeno così hai creduto tu. Ma io ho visto le impronte della tua auto davanti a casa mia, in campagna, a Gammara. Le avevo fotografate nel cervello. Per maggiore sicurezza le ho fotografate di fatto mentre mio padre era ancora disteso morto sul letto, in mezzo a casa. La provenienza l’ho cercata per molto tempo. L’ho cercata dappertutto.

Non pensavo che fosse tanto vicina. Né potevo immaginare che fossero le impronte dell’auto di una carogna che ancora asserisce di essere il mio migliore amico.

Il giorno in cui mi hai chiesto di farti compagnia per depositare l’auto da Occhivirdi un lampo mi ha avvampato il cervello. Scendendo dall’auto notai le gomme. Avevano il battistrada che cercavo. Non potevo crederci.

Ritornai dopo due giorni. Rividi quelle gomme. Le fotografai. Ho fatto anche degli ingrandimenti. Ve n’era una differente dalle altre e fu la prova del nove: le impronte erano quelle.

– E con questo cosa vuoi provare?

– Che tu sei stato a cercare mio padre. Lo hai negato e quindi sai. Ora parla!

– Io dovevo solo dirgli che doveva recarsi subito alle case di Sirignano.

La frase che dovevo dire era: “ricotta o non ricotta c’è sempre la pagnotta”.

Questo dovevo dire, io. Appena glielo dissi tuo padre immediatamente si mise in auto e partì. Non so più niente. Io seppi della disgrazia quando tornai da Milano, a Capodanno.

In una busta, sul tavolo, tornando a casa avevo trovato un biglietto d’aereo intestato a nome mio di andata e ritorno da Milano. Mia madre disse che l’aveva trovato in una busta sotto la porta di casa. Non sapevo nulla ma capii che quella sera stessa dovevo partire. E partii -.

Leo si fermò sperando che la spiegazione fosse stata sufficiente per scagionarlo da ogni responsabilità.

– E poi? – riprese incalzante Saro.

– Poi …, poi tornai a Capodanno.

– E poi?

– Nulla. Non so più nulla. Te lo giuro.

– L’auto chi l’ha pagata? Quindici giorni prima della morte di mio padre mi avevi confidato che non avevi una lira. Tre mesi dopo l’auto nuova.

– Mi hanno detto che il prezzo era buono. Senza interessi. Senza cambiali. Senza scadenze. Insomma qualcuno mi disse che se non avessi avuto i soldi per pagarla non dovevo preoccuparmi, perché nessuno mi avrebbe cercato e perché l’amico si riconosce al bisogno ed è per sempre.

– Occhivirdi! – interruppe Saro.

– Occhivirdi … – ammise Leo. E approfittando di un attimo in cui Saro aveva sollevato gli occhi verso la luna, più chiara che mai in quell’immenso buio sulla terra e nel cuore, tentò uno scatto. Ma, nell’appoggiare le mani sul muretto del pozzo, un calcinaccio si sgretolò sotto la pressione.

Perse l’equilibrio. Saro scattò in avanti e allungò con violenza una pedata. Colpì con la pianta della scarpa un fianco di Leo, che non riuscì ad afferrarla.

Poi tornò all’auto. Si mise alla guida e partì. La lasciò in periferia nel paese. Si mise a letto, ma quella notte non riuscì a prendere sonno.

Un urlo disperato fu l’ultima cosa che Saro ora ricordava di lui; e un tonfo.

Fissava il nero uniforme di quella casa e nel ricordo ancora non riusciva a distinguere se provava odio o pietà per quel traditore. Di certo non provava rimorso. Nessuno aveva più sentito parlare di lui.

Qualcuno disse di averlo intravisto in America, in compagnia di una mulatta. Altri che era stato vittima della lupara bianca. I parenti pensarono che un giorno, all’improvviso, sarebbe tornato. Chi sperava di più era Dora, sua madre; ma nel cuore lei aveva il presentimento che Leo era morto; nessuno sapeva dove, né perché.

Da anni, ogni domenica, dopo la messa, si recava al cimitero, a far visita alla tomba del marito, morto di cancro da oltre dieci anni. Ora avrebbe avuto un motivo in più.

Lucio e Saro si conoscevano da quattro anni. Entrambi si erano iscritti nella facoltà di Giurisprudenza, lo stesso giorno, e il numero di matricola di Lucio seguiva quello di Saro.

Avevano avuto un alterco rivendicando ognuno il diritto di precedenza per la presentazione della domanda di iscrizione, davanti allo sportello della segreteria. Poi avevano concluso col darsi la precedenza l’un l’altro.

Si era iscritto per primo Saro, ma aveva dovuto offrire da bere a Lucio per la precedenza accordatagli.

Dapprima fu conoscenza, simpatica conoscenza. Si rividero dopo un mese. Fu amicizia e cordiale amicizia. L’esuberanza di Lucio si confaceva perfettamente con la riservatezza di Saro. Lucio era un buon parlatore, Saro un buon ascoltatore.

Talvolta Lucio restava a Palermo, ospite nella casa che Saro aveva preso in affitto per gli studi, e dormiva e mangiava insieme con lui.

Entrambi seguivano le lezioni, si scambiavano gli appunti, preparavano le stesse materie per gli esami, si direbbe che prendevano gli stessi voti.

Erano stati piuttosto regolari nel superare gli esami previsti dal loro piano di studi.

All’inizio del quarto anno Saro disdisse l’affitto dell’alloggio a Palermo.

Avrebbe continuato gli studi senza frequentare le lezioni. Ciò avvenne subito dopo la morte del padre. Lucio aveva insistito perché Saro continuasse a frequentare le lezioni, ma poi aveva capito, o almeno pensò di avere capito, e si arrese.

Malgrado ogni insistenza di Lucio, col quale si incontrava talvolta, Saro non si presentò più agli esami, ma l’amicizia si rafforzò.

Tra amici le confidenze avvengono spontanee. Nessuno forzò mai l’altro a parlare. Lucio aveva intuito che un grosso problema opprimeva l’amico e che la morte del padre ne era la causa. Quando superava un esame era Saro il primo a cui comunicava l’esito e in tal modo era giunto quasi al termine di tutti gli esami.

Gliene restavano due complementari, che sicuramente avrebbe superato entro il mese di giugno; e la tesi di laurea, che pure era a buon punto.

– Peccato! – disse una sera, contento per se stesso, ma dispiaciuto per l’amico, – avremmo potuto preparare insieme la tesi.

Non si attendeva alcuna risposta. Saro invece rispose: – Sbrigati a laurearti. Se mi serve un avvocato so a chi rivolgermi. Io ormai mi dedicherò alla conduzione dei terreni di famiglia. Mi rendo conto che me la cavo discretamente …

Il discorso sembrò finire lì. Poi Saro, accostata l’auto, di cui era alla guida, lungo il marciapiede della strada, deserta a quell’ora, riprese: – E’ vero che se ne avrò bisogno mi difenderai?

– Ma non dire cazzate! Comunque, avvocato o non avvocato, sai che sono a tua completa disposizione …

– Sono siciliano e ho imparato che qui, in Sicilia, la prepotenza è sinonimo di mafia. Se la subisci sei un coglione. Se la eserciti sei un mafioso, anche quando la tua è rivendicazione … Molti, che da fuori Sicilia vengono sbattuti qui dalla buona o dalla mala sorte, ritengono che i siciliani siano tutti, nessuno escluso, delinquenti e mafiosi.

Questi soggetti non hanno neppure la capacità di distinguere tra persone oneste, delinquenti scalcagnati e mafiosi di rango. E non capiscono neppure se il proprio comportamento sia mafioseggiante …

Sentiva che si andava accaldando. Se ne accorse anche Lucio.

– Senti, Saro. – Lo interruppe Lucio – E’ inutile che ti scaldi, come al solito. Non risolverai tu la questione meridionale e tanto meno quella della Sicilia …

– Quattro sbarbatelli giunti dal nord credono di poter raddrizzare le zampe ai cani. – Continuò Saro – Non perché noi siciliani siamo da paragonare ai cani, ma perché raddrizzare le zampe ai cani, tu mi capisci, è pressoché impossibile, salvo a volerne cambiare la natura. Natura che nel siciliano è fondamentalmente buona, generosa, altruista, quasi sempre disinteressata.

– Beh, sul disinteressata avrei qualche riserva … Saro, quasi senza ascoltarlo, continuò: – Chi viene in Sicilia per giudicare, o per indagare, avrebbe bisogno di un lungo periodo di quarantena, possibilmente diviso tra i quartieri più malfamati di Palermo e gli androni dell’Ucciardone; non in qualità di detenuto, ma in qualità di osservatore e vivendo gli stessi problemi di coloro che vivono a Ballarò, alla Vucciria, al Capo e all’Ucciardone appunto.

Solo allora, forse, sarebbe in grado di distinguere tra ladri senza colpa, delinquenti senza testa e mafiosi spudorati e cinici. Ma lo stato non si preoccupa di far frequentare loro neppure un corso accelerato di psicologia generale. Con l’assurda conseguenza che questi tali, nell’intento di voler aiutare il popolo siciliano, avendone la possibilità, si comportano come si comporta un mafioso: impongono la loro autorità, senza un minimo di logica.

Con la forza della violenza. Non violenza fisica. Ma giuridica e costituzionalmente riconosciuta.- Lucio stava a guardarlo chiedendosi dove volesse andare a parare l’amico, il quale, ripreso fiato, continuò: – Il pubblico ministero accusa perché quello – dice – è il suo dovere e il giudice per le indagini preliminari colpevolizza col paraocchi del codice penale.

Non possono tenere conto delle cause di un reato. Come i militari: con l’ottusità propria della vita militare, che ha per regola unica l’obbedienza incondizionata, ovunque e sempre. Ma il siciliano, in generale, non è ottuso. Non è mafioso.

Non è delinquente! – proseguì Saro, mentre Lucio lo stava a guardare annoiato.

– Qualcuno commisera il siciliano, ma sicuramente il siciliano non sa che farsene della pietà degli altri ed è molto geloso del suo diritto, benché molto spesso il suo diritto non sia scritto nei codici: egli pretende unicamente rispetto – aggiunse Lucio, tanto per dire qualcosa, nella speranza che Saro chiudesse la sua arringa.

Invece Saro riprese con maggior foga: – Il codice sancisce il diritto del più forte; di colui che ha fatto proprio il potere e che quindi ha avuto la possibilità di legiferare e di normalizzare la vita della società ad esclusivo proprio tornaconto. –

Sembrò avere esaurito tutte le cartucce. Invece riprese con passione: – Vivere in Sicilia è tra le cose più belle che possano capitare ad un uomo, purché egli abbia almeno accettato, dico accettato, di trascorrervi la propria esistenza.

E per la natura che lo circonda e per gli esseri umani in mezzo ai quali vive, tenendo presente che se il vivere in qualsiasi paradiso terrestre non è frutto di scelta propria il vivere stesso diventa un inferno;

non solo in Sicilia.

Se poi la malvagità di alcuni siciliani, molto pochi in verità, è tale da risultare particolare e specifica rispetto a quella che si nota presso altri luoghi d’Italia e del mondo, ciò non può indurre chicchessia a ritenere la parola siciliano sinonimo di mafioso. La mafia esiste. Ma la Sicilia non è la mafia -.

Lucio, palesemente annoiato, lo interruppe: – Senti, Saro. Mi hai rotto le scatole: tu, la mafia, la Sicilia, la Sardegna, la Calabria e chi minchia ti sta a cuore … –

Ma Saro, quasi inebriato dal proprio pensiero e dalla propria oratoria, proseguì: – La mafia è la parte emergente di un iceberg. Sotto il livello dell’acqua vi è tutto il popolo siciliano; quel popolo che da millenni è schiacciato da una minuscola parte di siciliani e non siciliani; che hanno legiferato e hanno reso normale la vita di centinaia di generazioni, fatta soltanto di sofferenza e di sottomissione. Chi giudica dall’esterno non riesce neppure a scorgere i problemi che si nascondono in quella parte di iceberg che è sotto, negli abissi del mare.

Quella parte nascosta e silenziosa sarebbe capace di risolvere i propri problemi se solo riuscisse ad emergere un istante per prendere una boccata d’aria e un po’ di calore, di quel sole che appartiene a tutti. Vedreste quell’iceberg capovolgersi e quella parte emergente, che oggi si chiama mafia, sparire negli abissi e sciogliersi per sempre. Ma questo calore tarda ad arrivare. Le acque non si riscalderanno mai e tutto conserverà lo status quo. –

Saro sembrò stanco. Finalmente aveva finito di sproloquiare, pensò Lucio.