Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Cominciai così :

Era l’età degli “innamoramenti” e in quella classe eravamo tutti più o meno innamorati.

Innamorati della prof, della vicina di casa, della cugina, la sorella di un amico, la compagna di classe o della classe più avanti.

Era la “stagione degli innamoramenti” e la maggior parte degli amori erano amori che non sarebbero stati mai dichiarati e che nell’attesa si sarebbero persi.

Il mio tra questi.

L’inizio di ogni anno scolastico, era sempre un gran casino.

Quel giorno in quell’aula eravamo una quarantina e fu in quell’aula che per

la prima volta, notai tra tante, quella ragazza che da lì a qualche giorno avrei incontrato con piacere nella mia classe.

Eravamo al primo anno del commerciale.

Non furono molti i discorsi fatti con lei in quell’anno scolastico.

Il fatto che “mi piacesse”, mi inibiva e un po’ avevo paura che lo scoprisse, non volevo faglielo capire.

Il pensiero di rivederla rese felice anche l’inizio del secondo anno.

Erano in molti a starle “dietro” e non solo della classe, ma lei non accennava alcuna confidenza anzi, a dire il vero, un po’ se la tirava.

Diventammo amici, ma che dico…. ? Diventammo buoni amici.

Andavo spesso a casa sua a studiare o con qualche scusa, portare un libro, un quaderno, portarle i compiti quando non stava bene.

Non capii mai perchè a volte mi sentivo così impacciato e a volte invece mi sentivo un promettente “latin lover”.

Ero il più giovane della classe, avevo “fatto la primina” ed a quell’età un anno faceva la differenza se si considera che lei aveva già perso qualche anno scolastico a causa dei continui trasferimenti del padre.

In classe eravamo sempre seduti vicini, ed io ero spesso intento a sbirciare ogni spigolo di ginocchio che spuntava da sotto il grembiule nero.

Fu la “prima cosa bella”e così rimase per cinque lunghi anni di scuola.

Sempre più amici, sempre più insieme e sempre con la paura che se mi fossi spinto oltre avrei rischiato di rovinare tutto.

Quel maggiolone color “beige” targato LE 100129, lo riconoscevo in lontananza e già il mio cuore cominciava a battere più forte.

Poi da dietro il finestrino, vedevo un sorriso e una mano che mi salutava. 

Ed io che guardavo quel maggiolone sino a vederlo scomparire.

Alla guida suo padre a volte ancora in divisa militare.

Arrivammo al quinto anno senza che mai la nostra amicizia fosse scalfita da un qualche disaccordo.

Era come lei la definiva “un’amicizia perfetta”.

Per cinque lunghi anni c’eravamo trovati tutte le mattine e gran parte dei pomeriggi ma non avevo mai trovato il coraggio di parlare d’altro che non fosse argomento di scuola, compiti, lezioni e tempo libero.

Era la fine degli anni ’60, Battisti era solo agli inizi, ed io a furia di cantare “Mi ritorni in mente” avevo perso la voce, ma non avevo ancora trovato

né il momento, né le parole giuste.

Qualche lento a distanza regolamentare in occasione di una gita scolastica pomeridiana in una pineta d’ una località al mare.

Per tutto il tempo altro non feci, a parte quei due o tre lenti, che “arare” quella pineta ballando shake, come un cavallo pazzo.

Quel giorno capii che l’ innamoramento, per una strana voglia di esibizione o una pazza voglia di attirare l’ attenzione che ti prende,  a volte può farti cadere nel ridicolo o esporti in cose che era meglio non fare o non dire.

Il pulman che la portava a casa, partiva dai pressi della villa non prima delle due del pomeriggio e quando noi uscivamo all’una, in quell’ora che c’era da aspettare si passeggiava.

Si parlava, si raccontava ed ognuno che passava e la salutava era per me un colpo al cuore, era gelosia, pronto a immaginare chissà chè, vedere un presunto “rivale” in amore.

Maledetta timidezza, mi trovai dopo cinque anni a manifestare i miei sentimenti.

Eravamo all’ultimo anno, ed erano gli ultimi giorni di scuola quando in classe cominciarono a girare i “diari” su cui ognuno di noi scriveva la propria dedica.

Sul diario di lei, scrissi una dedica così lunga da consumare quasi tutte le pagine rimaste.

Tirai fuori tutta la mia creatività, la mia poesia e il mio sentimento.

Le confessai in quell’ultimo giorno di scuola tutto quanto non ero riuscito

a tirare fuori in così tanto tempo.

Ma ormai era tardi, troppo tardi.

Non ebbi alcuna risposta e il mio anno scolastico finì lì, furono tutti ammessi agli esami di stato, io no.

Da lì a qualche giorno dopo, era  già pronto il trasferimento di suo padre, si aspettava solo la fine dell’anno scolastico.

Del mio dichiarato “innamoramento”, non seppi più nulla, da quel giorno non ci siamo più nè rivisti, né sentiti e nel frattempo son passati cinquant’anni.

Non ho mai chiesto di lei, quasi per paura di sapere notizie non buone, non ho mai voluto sapere.

Spero solo che la  vita sia stata generosa con lei e che sia riuscita a trovare tutto quella che dalla vita sperava di avere.

Quella storia da allora in poi, non è stata più toccata, quasi  protetta da ogni aggiornamento,  lasciata così com’è stata senza cambiamenti per paura di rovinarla.

Non sono stato mai più interessato, neanche a chiedere quale fosse stato

il suo sentimento per me, magari aspettare una risposta.

Nessun desiderio di cercala, di rivederla o saperne di più.

Quella storia era bella così, con quel finale da conservare per sempre, nella sua imperfezione perfetta.

Mi bastava ricordarci così, con i nostri quasi vent’anni.

Io non so perchè questo ricordo, tra tanti, è rimasto così vivo.

Mi piacerebbe restasse sempre così, mi piacerebe conservarlo così.

Così come è stato, così come è finito. Proteggerlo da ogni novità.

Ricordare quella frangia che poggiava sui suoi occhi verdi, quella sua camminata lenta, quel grembiule nero, la sua ironia.

Tutti nella vita ci siamo innamorati, pazzamente innamorati, più volte.

E a tutti è concesso avere il suo innamoramento preferito.

Il mio è contenuto in questo racconto.

Certe emozioni durano sempre e viverle è una grande fortuna.

Era stato il mio primo “innamoramento”,  il mio segreto che finalmente avevo raccontato a qualcuno.

Ero al solito posto, all’ombra di quel “fico” che era sopravvissuto al tempo e alle mode.

Quando cominciai il mio racconto, c’era il sole che cercava spazio tra le larghe foglie dell’albero, senza riuscirci.

Alla fine del racconto, il sole era sparito e noi non c’eravamo neppure accorti.

Presi la sedia e mi diressi verso casa.

Pioggia e tuoni, chiusero quella che al mattino sembrava una bella giornata. Non ci fu più bisogno dell’ombra di quel vecchio “fico” l’aria era già fresca e rinfrescò sempre più.

Non so perchè quel pomeriggio, mi venne così tanta voglia di raccontare

storie così lontane.

Intanto ero quasi arrivato, la luna era nascosta da nubi nere, si sentiva il vento sbattere sui rami del “fico” e qualche foglio di carta svolazzava da una parte all’altra della strada.

Era stato un pomeriggio di ricordi e di racconti quel solito monello ormai cresciuto, non aveva aperto bocca e non aveva tirato un calcio al pallone.

Era stato fermo lì ad ascoltare.

Lampi e tuoni continuarono ad inseguirsi, il vento mostrò tutta la sua forza staccando foglie e rami.

Entrai finalmente in casa, chiusi fuori la porta il temporale e Mariù, in un angolo del cuore.

                                                            ………..continua