Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico.

Comincia tutto con la prenotazione al “villaggio”, non molto lontano e non molto vicino,
per non togliere il gusto del “viaggio”.

Non molto costoso e non molto popolare. Ma….. cominciamo dall’inizio.
Prima di prenotare, il solito passaggio condiviso, “la scelta”. E qui si apre la discussione.
Una volta raggiunta l’unanimità o a volte la maggioranza seguono a ruota la prenotazione e
il versamento dell’acconto. Di solito si versa più del dovuto. Dà più sicurezza.

Il numero “sette”, tanti sono i giorni da trascorrere al villaggio, diventa come per incanto un
numero magico.
Sette sono le “tenute” per rispettivamente: mattina in piscina, pranzo, pomeriggio e sera.
Qualche timida trasgressione è concessa solo per le scarpe.

Quelle si, possono essere “ripetute” per più di una volta ma nel limite massimo di due volte.
Si comincia ad andare in giro per mercati e negozi a cercare e comprare le cose più adatte al
villaggio, senza dimenticare qualcosa di più elegante nel caso di qualche serata particolare.
E poi creme, abbronzanti e tutti gli accessori del caso.

Quando tutto è concluso si prepara la valigia e si controlla la macchina, il thermos con il caffè,
si prepara qualche minuto prima di partire per tenersi svegli durante quelle due ore di viaggio.
Quando poi si arriva al villaggio è tutto uno stupore, solo frasi che descrivono la meraviglia,
la bellezza del posto. A questo punto divertirsi è obbligatorio.

Si comincia col mettere a posto le cose nella stanza a cominciare dalle “tenute” per i sette
giorni mettendole in fila per ordine crescente.
Si va in giro, si scopre il villaggio, bar, ristorante, piscina, mare, negozi, teatro, si legge il
programma del giorno, e dietro ogni cosa segue una esclamazione, una meraviglia, una gioia.
Comincia così il primo giorno e a sera si può notare sul viso, il color rosso un po’ più forte
del colore dell’aragosta.

Si riesce comunque a conservare una immotivata e incorporata euforia, lo spirito giusto, e le
battute che magari in un altro posto farebbero “cagare” nel villaggio fanno ridere a
crepapelle.

Ed è tutta una sfilata di “sirenette” pitturate e cotonate, tutta una sfilata di veli e trasparenze,
di “vedo”e “non vedo” dove il “non vedo” è decisamente da preferire.
Che dire poi degli allegri e stempiati over sessanta, mentre si cimentano in pista tra
“liscio, rap, twist e cha cha cha”.
Qui nel villaggio è concesso tutto, anche quello che nella vita di tutti i giorni è concesso
solo ai giovani.

Vi risparmio il racconto di colazione, pranzo e cena, un andare e venire con piatti sempre
pieni, piatti che difficilmente si riuscirà a finire. Scene del film: La grande abbuffata.
Piatti che straripano come straripano i “culi” fuori dai pantaloncini o mutande da bagno
o come straripa la pancia che esce fuori da sotto la t-shirt elasticizzata.
Insomma si torna un po’ giovani, si tolgono tutto d’un colpo, 20/30 anni a volte non sfiorando,
ma toccando e andando oltre il ridicolo.
Cappello, occhiali, costume e copricostume tutto in sintonia, tutto dello stesso colore dei
capelli e del trucco.

E la sera in discoteca tra la puzza di sudore, tra camicie e magliette bagnate.
Al ritorno di solito i conti non tornano, ma non ha importanza, ha importanza raccontare
sino allo sfinimento di chi è costretto ad ascoltare e nel frattempo già si pensa al villaggio
del prossimo anno.

Vi risparmio ulteriori dettagli e piacevoli siparietti.
Qualcuno a questo punto potrebbe essere sfiorato dal dubbio che la “composizione” che
vi offro in lettura, sia “autobiografica” essendo io stesso noto frequentatore di villaggi.
Non è così, ci tengo molto alla mia età per cercare di nasconderla.

E poi come diceva “quella matta di mia madre”:
OGNI FRUTTO HA LA SUA STAGIONE
quando ormai io grandicello mi divertivo a fare ancora il “bambino”.
Non so perché, quella frase non mi piaceva per niente e oggi mi piace ancora meno.
Perdonatemi, dopo due ore di rumore, non di musica, il dee jay, ha annunciato che subito
dopo ci saranno un paio di “lenti”. Non posso mancare.

Sono al centro di un “mattone” da cui i miei piedi non usciranno per tutta la durata del lento.
E’ “il cielo in una stanza”. Grazie Gino…… quanti ricordi.
Il racconto? Lo continueremo un’altra volta.
Per ora: “…….suona un’armonica, mi sembra un organo che vibra…….”.