Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Sono arrivato su un barcone, insieme ad altre 20 persone, da soli otto mesi e i cartelli fatti sventolare e gli slogan con cui siamo stati accolti da gruppi di
“neri”, non promettevano già nulla di buono.

Si, sono “bianco” ma che colpa ho. Vorrei solo vivere un po’ meglio, un po’ come voi “neri”.
Cerco solo un po’ di benessere e mi raccontano invece di tanta miseria.
Sono seduto sui gradini di una Chiesa che si affaccia su una piazza immensa.

Oggi è domenica, ho parcheggiato la mia bici cigolante sulla destra e osservo il via vai di persone che si fermano, parlano, si siedono davanti a un bar, che scherzano e ridono.
Il sole riesce appena a farsi vedere affacciato tra due palazzi ma poi ci rinuncia,
sparisce.

Sono l’unico “bianco” in questa piazza affollata da “neri” che entrano ed escono da negozi e ogni volta aggiungono sempre qualche busta, qualche pacchetto
in più.

Non sono abituato a vedere tutto questo, mai visto questo frenetico passeggio, per me è una novità, è una cosa che mi meraviglia e nello stesso tempo una
cosa che mi spaventa.
Nessuno mi degna di uno sguardo, anzi girano largo, forse hanno paura che chieda a loro qualcosa e che cerchi di vendere qualcosa.

Sono l’unico “bianco” tra una infinità di “neri”, mi sembrano tutti ricchi, tutti felici, tutti vestiti bene e profumati.
Qui non è mai inverno, è sempre pieno di turisti, vogliono visitare gli antichi villaggi, immergersi nella natura, nelle foreste, andare per mercati, tutti
innamorati della loro cultura, dei loro sapori, delle loro tradizioni.

Non nascondo che mi piacerebbe vivere in questa meravigliosa terra d’Africa, ma molte persone sono ostili al colore della nostra pelle.
E mentre mi guardo intorno, cresce in me il desiderio di integrarmi, di fermarmi.

Vivo in un centro di accoglienza, siamo tutti bianchi, veniamo quasi tutti dall’Europa, molti come me, vengono dall’Italia.
A volte vedo qualcuno che ci guarda con disprezzo, a volte persone dall’animo buono e generoso, pronte ad aiutare, ad ascoltare, dare una mano.

Sono un povero immigrato “bianco”, povero nel senso pieno del termine, un povero immigrato come dicono loro per motivi economici o più chiaramente per fame. Si, perché nel mio Paese c’è fame, solo fame, tanta fame.
Non vi racconto la mia storia, non voglio ricordarla, voglio solo dimenticare e spero col tempo di riuscirci.

Per ora no, mi accompagna ogni giorno, ogni ora, ogni momento, ho ancora paura anche se non c’è più alcun motivo.
Chissà come sarà la mia vita e quella di tutti noi “bianchi”, ma una cosa è certa, stiamo saltando la parte migliore della nostra vita alla ricerca di un
angolo dove vivere, alla ricerca di una vita migliore.
Troverò un lavoro, una casa, perché la nostra vita è così difficile, perché noi “bianchi” siamo stati così sfortunati ?

Ormai è sera, torno al “campo”, passo in mezzo a tanta gente ma mi sento “diverso”. Colpa della mia pelle bianca.
Torno al “campo”, prendo la bici cigolante e mi avvio velocemente.
A quest’ora al mio Paese, staranno già dormendo, ed io invece attraverso la piazza immensa e piena di gente e mi sento “invisibile”.

Sono arrivato al “campo”, qui siamo tutti “bianchi”, siamo in tanti e sono in tanti quelli che vengono dal mio Paese, dall’Italia.
Ci troviamo a parlare un po’ di tutto, in un incrocio tra sogni e realtà, tra speranza e pazienza.
Parliamo di quel che succede nel nostro Paese, forse un giorno torneremo o forse mai più.

Parliamo delle nostre famiglie, dei nostri fratelli, delle nostre sorelle, dei nostri figli.
Parliamo, parliamo, parliamo…….e parlando ci sentiamo come a casa.
Almeno un po’.