Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Quei soliti diverbi che dopo qualche giorno si chiariscono e schiariscono insieme un rapporto di amicizia su cui si era poggiata un’ombra di passaggio.

Partiti dalle elementari, continuato alle medie e proseguito al commerciale, in più vicini di casa e di banco.
Non ricordo più per quale motivo, se per gelosia o qualcosa di simile o per altro.
Ma in un modo o nell’altro era la solita stupidità che durava lo spazio di un po’ di giorni e poi come per incanto spariva, succedeva qualcosa che faceva tornare tutto al punto di partenza.

Sarebbe stato così anche quella volta, anche se l’incomprensione era stata più forte, più ricca di parole, paroloni e forse qualche parolaccia da parte mia.

Quando già l’indomani, sentii il telefono squillare, pensai: “ non può vivere senza me ”.
Per farmi prezioso non risposi a tutte le sue numerose chiamate che si susseguirono anche nei giorni successivi.
Un po’ ero pure arrabbiato, ma quelle sue chiamate mi facevano sentire sempre più importante e mi facevano arrivare sempre alla medesima conclusione:
“ lei è pazza di me ”.

Ed era una vera e propria “resistenza” il non rispondere al telefono, una resistenza che secondo me avrebbe reso ancora più bello il riavvicinamento.
Dopo qualche giorno decisi di rispondere al telefono con un “pronto” freddo e distaccato.

Voleva solo dirmi che era stata male, che aveva avuto uno svenimento improvviso vicino alla sua casa e quando si era svegliata era sul letto di un ospedale.
Che era stata soccorsa dai passanti che l’avevano vista riversa per terra e avevano chiamato l’ambulanza.

Che era stata male, molto male, che aveva pianto, pianto, pianto.
Provai un misto di vergogna e dispiacere, non riuscii a trovare le parole giuste che avrei volute dirle.
Seppi solo chiederle scusa, mille, centomila volte scusa e mentre lo facevo mi sentivo morire dentro.

Da quel giorno in poi la tempestai di telefonate, non passò un solo minuto senza sentire la sua voce, le chiedevo in continuazione “come va, come stai? “ per tutte le volte che avrei dovuto chiederlo.
Era il primo pensiero la mattina, l’ultimo la sera.

Fui assalito da un senso di colpa: mi chiamava come per chiedermi aiuto, sentire la voce di un amico, parlare con un caro amico, voleva aggrapparsi a qualcosa che io le avevo negato.
Quel senso di colpa tardò a calmarsi, tardò molto o forse ne rimase sempre un po’ e ancora oggi mentre scrivo si risveglia in me. Come allora.

Mi feci raccontare quel che lei ricordava e quel che le avevano raccontato di quanto era accaduto.
Non si accorse mai che ogni volta i miei occhi diventavano lucidi, come se sentissi in lontananza il pianto di lei impaurita su un letto d’ospedale e la
speranza che prima o poi rispondessi alle sue chiamate.

Nulla di grave, il solito stress che la assaliva prima di un esame.
Era crollata per paura.
Non so se riuscì mai a perdonarmi, io no, non riuscii mai a perdonarmi e ancora oggi se penso, avverto come allora l’emozione e la rabbia per non aver
concesso quello che invece avrei voluto concedere dal profondo del cuore.

La vita riprese normale, tornammo amici e anche più, ma quanto successo aveva lasciato in me una profonda amarezza, una profonda tristezza.
Avrei voluto starle vicino, nei momenti in cui aveva avuto bisogno, perché a volte puoi avere tanta gente intorno, ma se manca qualcuno a cui ci tieni, ti senti solo, come fossi solo.

Le dissi che quando vedevo le sue chiamate avevo un gran voglia di rispondere, ma non lo facevo per stupidità o per stupido orgoglio.
Le chiesi scusa mille volte e nel farlo le confessai:
“ VOLEVO SOLO FARE L’ARRABBIATO”.
Poi si sa nella vita certe strade si incontrano e certe altre si dividono.

Con quella ragazza ci sentimmo a lungo, poi sempre meno e poi quasi mai.
Le sue parole mi perdonarono, il suo cuore non lo so.
E ancora oggi me lo chiedo.

                                                        PIERO D'ERRICO