Ringraziamo l’autore per aver autorizzato la pubblicazione del suo libro su queste pagine. 

Rubriche/PensieriParole/di Marino Giannuzzo

L’avevamo visto svolazzare a brevi tratti tra un cespuglio e un altro nel giardino, poco distante dal campetto di calcio del convento, dove i nostri compagni stavano disputando il primo tempo di una partita.

Benché incuriosito io non avevo dimostrato alcun interesse a quel modo di spostarsi dell’uccello, ma Pietro Nisi, il mio compagno di squadra, che insieme con me attendeva in panchina il suo turno per dare il cambio ad un altro giocatore, in attesa del secondo tempo della partita, si rese conto subito della anomalia di quel volo. Pietro era un amante di zoologia. Era il più preparato tra tutti durante le lezioni della materia negli anni del liceo.

Io ero più incline a seguire le lezioni di natura letteraria: italiano, latino, storia dell’arte, un po’ anche il greco, ma non tanto da quando il professore padre Roberto Plotino mi ritenne molto bravo nella materia e mi abbandonò a me stesso, convinto che potessi cavarmela da solo, ed invece fu la mia rovina perché anch’io mi convinsi che quanto sapevo era sufficiente e non lo curai com’era necessario, e sul finire del secondo anno di liceo egli si meravigliò della mia deficienza ed io mi vergognai della mia stupidità.

Nisi quindi, disinteressandosi della partita di calcio, mi fece segno di seguirlo mentre già si incamminava a passo svelto verso il cespuglio nel quale si era intrufolato il volatile. Lo individuammo rendendoci conto che aveva qualche problema che non gli permetteva di volare normalmente. Delicatamente lo prese tra le mani e, appena lo ebbe osservato, si rese conto che aveva una zampetta danneggiata, forse rotta.

Non tornammo sul margine del campo di calcio. Ci disinteressammo completamente delle sorti della partita che svolgeva la nostra squadra. Ci recammo presso una stanza del convento, che fungeva da infermeria e dove sapevamo che avremmo trovato l’occorrente per la medicazione. Pietro lo medicò, gli fasciò la zampetta e lo depose in uno scatolone di cartone che trovammo sul luogo, con la parte superiore completamente libera di copertura. D’altronde il povero merlo non era nelle condizioni di poter volare fino a guarigione completa. Lo lasciammo in convalescenza, ma a turno, oppure insieme, durante i tre giorni successivi, tornavamo a visitarlo, o a medicarlo, se fosse stato necessario.

Il quarto giorno era domenica. Io mi recai per tempo, appena mi fu possibile, a fare visita al merlo. Mi resi conto immediatamente che nello scatolone non c’era il becco giallo. Cercai meglio nello scatolone e nella stanza, ma del merlo e del suo becco giallo non c’era traccia. Né poteva essere volato via poiché la stanza era chiusa e una finestrella a vetri che le dava luce era pure chiusa. Pensai che Pietro l’avesse trasferito altrove, o l’avesse liberato, ma conoscevo Pietro, e Pietro un’azione del genere non l’avrebbe mai perpetrata senza farmene partecipe prima, oppure dopo, in caso di necessità impellente.

Mi misi alla ricerca di Pietro. Lo trovai nella sua stanza intento a leggere qualcosa. Gli chiesi se sapesse dove si trovasse il merlo. Preoccupato mi rispose che doveva essere nella infermeria, nello scatolone di cartone.

-Nello scatolone non c’è.

-Nella stanza hai guardato?

-Ho guardato dappertutto, ma non c’è.

Intanto egli aveva abbandonato la lettura e si dirigeva verso l’uscita della sua stanzetta, facendo cenno a me di seguirlo. Lo seguii. Ritornammo in infermeria. Nulla. Ci dividemmo le zone di ricerca. Avevamo qualche speranza, ma il nostro poteva definirsi più desiderio che speranza. Io cercai in lungo e in largo ritornando varie volte sui vari luoghi. Nulla. Non mi sono mai reso conto di quale presentimento o di quale motivo mi spinse a dirigermi verso il refettorio, il luogo comune dove consumavamo i nostri pasti.

Appena entrato, sulla mia sinistra, comodamente seduto, Cosimo Cintura, un altro confratello, così ci chiamavamo tutti fino al momento di diventare sacerdoti, consumava insolitamente la sua colazione. Gli occhi miei fissarono il suo piatto e con voce alterata chiesi:

-Quello è il merlo?

Non s’aspettava la domanda rivoltagli a bruciapelo e convinto che nulla poteva succedere, avendo egli circa tre anni più di me, e, sicuro di sé stesso e con strafottenza, rispose: -Sì.

I miei occhi erano fissi nei suoi e con rapidità e movimento che non si aspettava le mie mani furono sotto al piatto con gli ultimi resti del merlo fritto in tegamino e il tutto volò colpendo in pieno il viso di confratel Cosimo Cintura. Non mi diedi pena di cosa gli avessi combinato. Poi seppi che gli avevo causato un grosso ematoma sulla guancia sinistra. Non si mosse. Non aveva reagito al mio gesto. Non gli dissi più nulla e mi allontanai, orgoglioso e soddisfatto con me stesso per il gesto che avevo compiuto.

Avevo reso giustizia al merlo ferito al quale Pietro e io avevamo prodigato le nostre amorevoli cure in attesa che potesse riprendere nuovamente il volo. Avevo reso giustizia alle inutili opere di misericordia che avevamo avuto nel raccoglierlo rinunciando alla nostra partita di calcio. Avevo dato la lezione che meritava ad una persona inqualificabile. Insomma mi sentivo soddisfatto. Né volevo che il tutto passasse sotto silenzio o, peggio, che il Direttore venisse a sapere dell’accaduto da una accusa riportatagli dal Cintura o da altri.

Mi recai quindi immediatamente dal Direttore, un sacerdote degno della sua carica e del suo ministero, che vedendomi alterato, con dolcezza mi chiese:

-Che c’è?

-Nulla. Mi dovete dare una punizione.

-Una punizione?  E perché?

-Ho scagliato un piatto in faccia a confratel Cosimo Cintura.

Mi guardò per un attimo, quasi incredulo:

-Un piattooo…!? Va bene. Per ora fammi andare a celebrare la santa messa. Dopo torna e ne riparliamo.

Fu così che dopo la messa ritornai da lui. Volle raccontato il tutto. Poi disse soltanto che atti di questo genere solo persone che non hanno argomenti per farsi ragione li compiono e mi licenziò imponendomi di presentarmi in refettorio, ad inizio del pranzo, in ginocchio davanti al tavolo dove si sedevano lui direttore e i suoi collaboratori, e chiedere a loro perdono per la cattiva azione che avevo compiuto, indegna di una persona che diceva di volere diventare sacerdote.

Fui ben contento di quella punizione. In fin dei conti desideravo che tutti conoscessero il gesto che avevo compiuto e l’ardire che avevo avuto.

Sacerdote io non ci diventai. Nei miei progetti c’era la creazione di una famiglia, con moglie e figli. Tuttavia non ho mai rinnegato quel periodo della mia vita, anche se fu carico di sofferenze non fisiche.