Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

“Ho trascorso tanti giorni belli e altrettanti giorni brutti.

Ora son qua, sono quasi felice, di sicuro rassegnato.

Non ho nulla e non mi manca nulla.

Mi sono abituato a vivere in una realtà che pensavo non mi appartenesse, che non mi aspettavo, una realtà in cui voglio fermarmi, in una realtà in cui voglio continuare a vivere e anche morire.

Mi basta un saluto, lo sguardo allegro di un vicino, l’abitudine di trovarci la sera e ringraziare Dio per quel poco che ci da.

Per farla breve, non ho avuto fortuna, un po per colpa mia e un po per gli ostacoli che la vita ti mette davanti.

Vi risparmio l’elenco, ma un po’ alla volta ho perso tutto, ho perso per primo il lavoro, poi tutto il resto.

Colpa della crisi prima, della pandemia dopo. Ed ora eccomi qua.

Si sono inseguiti uno dopo l’altro, gli insuccessi, come a fare una gara tra loro.

Mi son trovato così senza più una casa, senza più un lavoro, senza famiglia. Mi son trovato solo, mi sono nascosto per la vergogna, per la paura.

E’ andata così, è stata dura ma pian piano mi sono abituato, mi sono rassegnato.

Prima non ero tanto diverso da te – disse – volgendo lo sguardo verso di me”.

Un vecchio cappotto scuro, una sciarpa legata al collo, barba fatta la mattina e in testa un berretto di lana.

“Quasi tocca a me – concluse – ci vediamo”.

“Ci vediamo presto” risposi.

Toccava a lui, quasi un’ora in fila dietro una colonna infinita di persone, davanti al cancello di una associazione “ PANE QUOTIDIANO” per mangiare.

Nel suo discorso mi aveva spiegato dove “abitava” e un pomeriggio andai a trovarlo.

La sua casa era un vecchio vagone della metro, in un parcheggio dove c’erano tanti altri vagoni ormai in disuso.

Condivideva lo spazio di quel vecchio vagone con due altre persone, era pulito e tutto in ordine, si sentiva solo un po’ di puzza di fumo di sigaretta. All’ingresso una pianta in un grande vaso di terracotta.

Davano l’acqua quando ci voleva, si prendevano tutti cura di quella pianta, volevano vederla crescere bene, volevano vederla “felice” come loro dicevano.

Rimasi lì a parlare sotto un cielo stellato, rimasi lì ad ascoltare, rimasi lì a capire.

Non avevano niente, avevano perso tutto, ma non chiedevano nulla, erano lì a parlare con voce che ogni tanto si perdeva e con tanta, tanta dignità.

Non avevano impegni, forse neanche sogni.

Tornando a casa sotto quel cielo ancora più stellato, ripassai nella mia mente i discorsi fatti.

Cercavo qualche traccia, qualche “filo di speranza” in mezzo a quei discorsi. Non ne trovai.

Mentre mi allontanavo, vidi arrivare un gruppo di giovani volontari, portavano qualcosa di caldo e qualche coperta.

Mi tornò in mente una frase detta da uno di loro: “la nostra gioia è quando qualcuno ci vede, quando qualcuno ce la fa a vederci.

La gioia non è per quello che ci portano, “gioia” è sapere che c’è qualcuno che si accorge di noi, si preoccupa per noi.

“Gioia” è accorgerci che esistiamo”.

Camminai per oltre un’ora sotto quel solito cielo stellato di quella serata primaverile in pieno inverno.

Mi ero fermato a salutare una persona che era in fila, che pensavo di conoscere, che ricordavo da piccolo abitare nel mio stesso quartiere.

Non era lui, o almeno così mi aveva detto, poi una parola dopo l’altra, avevamo iniziato un discorso in attesa che le oltre cento persone prima di lui scorressero, in attesa che toccasse a lui.

Mi disse: – ti sbagli mi stai scambiando per un’altra persona, per qualcun’ altro – .

Poi mentre parlava pronunciò il mio nome, lo sapeva.

Io non glielo avevo mai detto