nonniRubriche/ PensieriParole/di Piero D’Errico 

Prima storia.                                                                                                                                                                 

-Ho visto il sole arrampicarsi con fatica su quelle sbarre di ferro.

Entrare e riposare seduto sempre  in quel solito angolo umido e freddo, in quella stanza, in quella rabbia. Poi sparire lentamente.

L’ho visto per tanti lunghi anni.

Mi sono stati utili, mi sono serviti,  ho imparato cos’è la vita, conosciuto la vergogna, sognato la libertà.

Il giorno che sono “uscito” pioveva, era quasi buio e non c’era nessuno ad aspettarmi.

Mi sono ritrovato, sono cresciuto. Ed ora odio gli spazi chiusi, odio stare in casa, amo stare mano nella mano con mia figlia a scorrazzare in spazi aperti, dentro spazi liberi.

Seconda storia.

-Non ho visto il sole neanche quando c’era, in me c’era sempre il buio, ero sempre in cerca, sempre “fatta” , in qualche angolo, in qualche portone, in qualche stradina, in qualche cantina.

Non mi sono mai voluta bene, non ho voluto mai bene.

Un prete brusco e scorbutico mi ha raccolto in una notte di primavere quando in giro non c’era più nessuno. Mi ha aiutato, mi ha guarito, mi ha salvato.

Volevo cambiare, volevo sognare, volevo ricominciare. Ci sono riuscita.

Terza storia.                                                                                                                                                                  

-Mi sveglio alle sette e trenta,  quando il sole accarezza i miei capelli sul cuscino, e con la solita fatica ad alzarmi.

Scelgo in fretta come vestirmi, lo zaino è già fatto, colazione ricca e puntuale, un bacio e via di corsa nell’ultimo anno del commerciale, tre traverse dopo casa mia. Una breve passeggiata per tornare a casa, qualche domanda sulla giornata e il mio papà è già arrivato. Si pranza insieme, si parla, si ride.

Si parla del fine settimana, si parla di vacanze, si parla di tendenze.

La sera ci troviamo insieme davanti alla TV a guardare in faccia la fortuna di avere avuto, la fortuna di vivere una famiglia vera, una famiglia unita, una famiglia felice.

Stessa strada, stesso quartiere popolare, ricco di storia, ricco di storie, dove si conoscono tutti, dove si incontrano tutti, dove si aiutano tutti.

Ci trovammo tutti e tre quel pomeriggio seduti davanti al bar, ognuno a raccontare la sua storia, i particolari, i dettagli.                                                                                                         

Ognuno a raccontare i suoi dolori e le sue gioie, il percorso semplice o complicato, il suo vissuto.                                                                                                                                   

Volevamo capire perché in tre famiglie simili e normali, nessun difetto, nessuna colpa, potessero nascere storie così diverse.                                                                                           

Forse qualche amicizia, qualche distrazione, qualche tentazione.                                                                              

Un forte dispiacere, un punto di rottura.                                                         

La ragazza fortunata, ascoltava le loro storie quasi tremante, non le sembrava vero, non le sembrava possibile.

Sei fortunata tu – le fece l’altra ragazza – io porto sulle braccia ancora i segni di quel periodo” .

E il ragazzo aggiunse : ed io del tempo non vissuto cosa devo dire?.

“Non è vero” – rispose lei –  siamo tutti e tre fortunati. Se ci raccontiamo la nostra storia, la nostra vita, siamo fortunati. Siamo fortunati a vivere e voi più bravi a ricominciare.

E mentre si alzavano da quel tavolo davanti al bar si affrettavano a finire il gelato che ormai si stava velocemente sciogliendo.

Si ritrovarono dopo un bel po’ di tempo, stesso posto, stesso gelato, i discorsi diversi.

Parlavano di lavoro, di carriera, di volontariato, di viaggi.

Nel tempo libero, il ragazzo e la ragazza meno “fortunati” andavano in giro a raccontare la loro storia, la loro esperienza, volevano dare coraggio, dare speranza, dare insegnamento a chi ne aveva bisogno.

E la piccola, la più fortunata,  quasi sempre presente negli incontri che loro facevano, per raccontare.

Quasi sempre in un angolo, sempre ferma ad ascoltare.

La fine di ogni loro racconto trovò sempre i suoi occhi lucidi,  mentre quel velo di tristezza diventava un sorriso quando sentiva intorno a se le loro braccia.