Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Certe cose non riesci a spiegartele. Certe cose ti restano nel cuore più      di altre.

Certi posti, certi luoghi, certe canzoni che magari sono in pochi a conoscere o magari ricordi solo tu o conosci solo tu, ti accompagnano  tutta la vita e forse anche dopo.

Io son rimasto legato e lo sarò di sicuro per sempre, alla casa di via CAPRI n. 1.

Ero piccolo, ma ricordo bene ogni dettaglio, ogni particolare, un piccolissimo giardino, un’entrata dal giardino che portava in cucina, una camera da letto e il bagno come  poteva essere negli anni ’60.

Non c’era l’acqua corrente, e la fontana da cui ci rifornivamo non era neanche tanto vicina.

Ricordo tutto, dove e come erano i pochi mobili, dove c’era il letto, il tavolo da cucina, la credenza, il bagno e la bacinella poggiata  su un telaio in ferro.

C’era un’altra entrata, che dava direttamente nella camera da letto, dalla strada, da via CAPRI al n. 1.

Ricordo quel NATALE in quella casa, l’attesa, quel ramo di pino addobbato che non si manteneva in piedi sotto il peso delle tante caramelle e cioccolate appese, quell’atmosfera contagiosa di festa, la gioia che ci avvolgeva e mia madre davanti al fuoco scoppiettante, a preparare    insieme alle zie invitate fisse in quei giorni di festa, ogni piatto che la tradizione imponeva.

E noi ragazzini, un po’ in casa e un po’ fuori a giocare, aspettando che qualcuno si affacciasse per strada e ci chiamasse più volte, quando tutto era pronto.

Ed erano profumi ed erano anche preghiere.

Era una festa di Chiesa, di parrocchia, di scambio di “piatti” e di sapori

da far assaggiare ai vicini e  di tanti piatti che i vicini ci portavano ad assaggiare.

Il metro con cui si misurava la buona riuscita di quanto preparato, erano   le “pittule”, le pittule vuote o ripiene di tante cose.

Le mie preferite, erano e ancora sono, quelle alla “pizzaiola” seguite appena un filo dopo, da quelle con il “baccalà”.

Non avevamo nulla eppure eravamo molto più felici e il senso del Natale era profondamente diverso da quello di oggi.

Avevamo anche noi tanti desideri che molto spesso restavano tali, ma non erano essenziali e di certo non ci rovinavano la festa se non arrivavano come molte volte succedeva.

Capivamo la situazione, non pretendevamo nulla anzi eravamo pronti a rinunciare a quel “desiderio” che timidamente avevamo confessato.

E intanto per tutto il tempo che sparivamo, eravamo impegnati a scrivere la “letterina di Natale”, letterina che andava a finire sotto il piatto di papà che ad un certo punto tra stupore e meraviglia faceva finta di trovarla.

Ed allora toccava a me, in piedi sopra la sedia con il vestitino nuovo di Natale, a leggere la letterina impastando le parole in qualche punto che più mi emozionava.

“Chiedevo scusa, per i capricci, per qualche disobbedienza e sul finire la promessa di andare in Chiesa volentieri tutte le domeniche e studiare un po’ di più”.

Quando finalmente finivo di leggere, favevo il giro del tavolo dove intorno non erano mai sedute meno di una quindicina di persone, davo un bacio a tutti e poi cominciavano ad arrivare le prime “lire”.

Io non ricordo che fine facevano quelle poche lire che mi regalavano, probabilmente le avrò regalate a mia madre o usate per fare qualche regalo, ma so per certo che conservo ancora quei ricordi e che quella casa molto modesta, quelle feste e quel Natale rappresentano ancora oggi una grande bellezza della mia vita.

Di tutte quelle promesse fatte, lette tra le lacrime di mia nonna che era la prima a cominciare,  seguita poi da mia madre,  purtroppo dopo qualche giorno non restava più nulla, o forse no, era sufficiente solo qualche ora.

Quella volta faceva un freddo cane e mio padre esperto nella dinamica dei venti, non smetteva di comunicarci:

se calma il vento, scenderà tanta neve”.

E così fu, il vento all’improvviso si calmò,  scese la neve, tanta neve.

Imbiancò strade, alberi e case e fu festa, fu festa nella festa.

Ed io a correre di qua e di là, a chiedere ai vicini se per caso avessero una carota, avevo fatto un pupazzo di neve, gli avevo messo un gilèt di mio padre, il mio berretto in testa e la mia sciarpa intorno al collo.

Mi mancava la carota, solo la carota  per fargli il naso ed il pupazzo di neve era completato.

La trovai finalmente nell’ ultima casa in fondo alla strada, da un amica di mia madre, stanco e anche sudato tornai con la carota tra le mani e quel pupazzo diventò un’opera d’arte.

Chiamai tutti, li invitai a uscire fuori ad ammirare quel che avevo costruito con le mie mani gelate.

Intanto il sole s’era stagliato nel cielo sbarazzandosi di tutto il grigio che c’era,  il cielo era tornato  azzurro come a primavera e la neve cominciava a sciogliersi.

L’indomani mattina mi svegliai col pensiero, corsi alla finestra a spiare se il “pupazzo” c’era ancora.

Niente. Era rimasta per terra solo la carota, il gilèt, la sciarpa e il berretto,

li aveva portati in casa mia madre. 

Ci rimasi male, molto male e forse qualche lacrima, che tenni ben nascosta, attraversò il mio volto.

Chiesi a mio padre del “tempo”, e mio padre scrutando il cielo, mi disse che sicuramente ne avrebbe fatta altra, tanta altra neve.

Io ero già felice, ero già ad aspettare. Avrei rifatto il pupazzo.

Le giornate che seguirono furono quasi estive, della neve nessuna traccia. Mi venne il dubbio che forse mio padre si era accorto della mia delusione  per quel pupazzo di neve che il sole aveva sciolto e come per consolarmi, mi avesse detto una bugia. 

Però non ne ero sicuro.

Il tempo poi fece il resto, fu tutta colpa di quella neve se gli anni che seguirono scivolarono velocemente, così velocemente da non fare più in tempo a contarli.

Il Natale resta sempre la mia festa preferita ma quel Natale visto attraverso gli occhi di “quel vivace ragazzino”, non tornerà mai più.